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Archive for giugno 2011

Una piccolo calibro.
Puntata davanti agli occhi.
Quel buco nero era enorme.
E stava già risucchiando vita, ricordi, speranze, paure.
Una vorticosa caduta su scale a spirale.
Deglutì, rumorosamente.
La brunetta aveva la borsa coi soldi e l’anima in una mano.
L’altra, saldamente la Beretta.

Era così Angie.
Una che la notte si addormentava senza lacrime.
E che la mattina non voleva svegliarsi. Avrebbe dormito una vita.

– Calma, Angie! –
– Non dire una parola, bastardo! –

Un proiettile partì.
La pelle strappata ed una riga di sangue si colorò sul braccio di Will.

– Miro al cuore la prossima volta, zitto e voltati! –
Si voltò.
Il Circo Massimo.
Roma.

Vanilla sky: il cielo.
Corvi neri spuntavano da neri palazzi.
Il pioppo al centro dell’antica vallata.
Ciottoli ovunque. Calpestati senza ritegno.

– Ti piace, eh? –
– Si, Angie. Bellissima. –

Lasciò scivolare la borsa per terra.
Appoggiò la pistola in mezzo ai reni di Will.
Un guanto di pelle rossa strinse la sua mascella, da dietro.

– Sono stanca. Di tutto. E tutti. –
Sorrise Will: – Finalmente! –
– E no, cazzo. No. Nessun finalmente. Sono davvero stanca – .
– Hai i soldi, no? Parti! – .

(gabbiani che gridano)
Alzò la testa, e sorrise. Con gli occhi di ghiaccio impassibili. Quasi un riflesso involontario fu il torcersi della sua bocca carnosa.

Era così Angie.
Una che la notte si addormentava senza lacrime.
E che la mattina non voleva svegliarsi.

Will si girò di scatto, con il braccio già teso ed in un attimo mollò un rovescio sulla sua guancia.
Sentì il dolore e lo accettò senza drammi inutili.
La sua vita era stata un dramma silenzioso. E non da meno si sentiva inutile.

Aprì la bocca per dire qualcosa.
Non ve ne fu tempo.
Un pugno alla mano e la Beretta volò sui ciottoli.

Il cielo si coprì di blu scuro.
I secondi diventarono minuti.

– Tieniti i soldi. E vai via di qui – .
Si toccava la guancia. Pulsava.
Non disse una parola e si girò in direzione sud, verso le montagne.
Un soffio di vento.
Sentì il suo profumo e la sua tristezza.
Non era mai stata in nessun posto.

(gabbiani che gridano)
Due scoppi.
Tutti e due al cuore.
Mirò con la testa voltata ed il braccio teso come una freccia pronta per essere scoccata.
Pose fine alla sua vita.
Se ne prese carico.
Morendo anche lui.
La fine dell’innocenza.

Due colpi.
Angie cadde senza far rumore.
Così come era vissuta.

Angie…
che la notte si addormentava senza lacrime.
E che la mattina non voleva svegliarsi.

 

 

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Grano.
Grano ovunque.
A perdita d’occhio.
L’orizzonte è curvo; colline scure con il sole caldo di giugno.
Grano ovunque.
Lei.
Cammina sinuosa e guardinga.
Si ricorda un po’ della sua terra. Quella terra del sud che non ha mai lasciato e con la quale un giorno si ricongiungerà.

Il caldo del tramonto si fa sentire.
Il vento muove lentamente le spighe, avanti e dietro. Avanti e dietro. Ancora.
Un balletto imparato alla perfezione e guidato da una mano invisibile.
Sorride.
Ma i suoi occhi mentono.
I suoi occhi….
Grigi. Smeraldo. Ghiaccio.
Quegli occhi sono una maledizione, una galera in cui i condannati sfilano silenziosi. Intimoriti. Sconfitti. Inchinati. Prostrati.

Sogna di lasciare quel posto.
Ma lei è in nessun posto.
Lei è ovunque.
A lei basta chiudere gli occhi per volare via.

All’improvviso, una figura.
Socchiude gli occhi. Ora sembra una pantera. Col cuore di gatta.

Spalle enormi. Capelli lunghi. Sorriso da figlio di puttana. Modi spicci e mani lunghe.
Cammina in sua direzione.
Lei mantiene un ghigno. Ma non tradisce emozioni.
Le sue emozioni non si possono cancellare.

Ed ora il tempo del racconto va al passato. 
Il passato è il tempo migliore per raccontare una storia. 
Accaduta per davvero. Oppure no. 
In questo luogo. O forse in un altro.
Non ha importanza.
Alcune storie devono solo essere raccontate.

Non disse una parola.
Lui la fece volteggiare su se stessa.
Stringeva il polso, per farle male.
Alla fine del volteggio la placcò a sè: stava dietro e le sue braccia incrociate sull’ombellico di lei.
Sentì la sua pelle.
Era fresca.
Non tradiva emozione il suo viso, molto probabilmente, ma la sentì incurvarsi…
come le gatte di notte….contro un muro…

Alzò la testa.
Baciò il suo collo, dietro la nuca, i capelli castani non erano un problema.
I just wanna be your woman”
Non disse una parola lui.
“Guarda questo campo. Il grano è pronto per essere ...” – continuò lei.
Non terminò la frase. Non ci riuscì.
Era un fremito quello che sentì partire dall’orecchio, arrivare al coccige e schizzare su, dietro la nuca.
La lingua morbida di “spalle enormi” iniziò a leccarla.
Piegò le ginocchia per scivolare verso un baratro senza fondo, ma lui la sostenne con le due braccia sempre incrociate, un po’ più sotto dell’ombellico.
“occhi grigi” alzò il braccio, poi lo piegò per accarezzare in punta di dita la nuca di quell’uomo venuto da chissà quale posto.
Forse l’America, forse da dietro quella collina o magari era solo nella sua testa.
No.. solo nella sua testa no. Impossibile.
Sentiva i muscoli, le ossa ed i nervi di quell’uomo premerla verso sé.
Lì c’era carne.
Lì c’era sangue.
Lì c’era tutto il mistero del mondo.

Ti prego.. basta...”  ansimando.
Lui vedeva i suoi seni.
Li ammirava.
Non avrebbe fatto la iena con la carcassa di antilope.
No.
Tolse la magliettina lilla con una sola mano. La destra pigiava sulla coscia e lei vi era aggrappata, disperata ed inarcata impercettibilmente in avanti.
Si tolse la maglietta anche lui.
Volle farle sentire il suo caldo. Volle farle sentire il fuoco. Volle fare luce su terre rimaste troppo tempo al buio.
Lei baciò il collo.
Strinse un piccolo lembo di pelle tra i denti e la sua bocca a forma di cuore vi si posò sopra.
Succhiò.
“spalle enormi” accusò il colpo e guardò disinteressato l’orizzonte che si faceva viola e blu; le labbra socchiuse, la lingua fragilmente tra i suoi stessi denti..
Prese una spiga. La passò tra le scapole di lei sino a bacino.
Girò intorno alla vita e dopo un giro veloce sull’ombellico, falsamente incerto salì sino ai seni scoperti; l’altra mano sul jeans con il primo bottone sganciato.

“Give me a reason…”
“spalle enormi” bruscamente la spinse per terra, senza farle male… sembrò quasi che si tuffasse in un mare giallo. E non parlava.
cederò alla tentazione, è solo questione di giorni” – tremante lei.

Lui la guardò.
Era sopra lei. I capelli penzolavano a pochi centimetri dal suo viso. Le braccia in tensione tenevano il peso; lei in posizione supina.
Aveva la pelle chiara, una bocca perfetta e quando gli sorrise si chiese quanti prigionieri avesse fatto.
Aveva un sapore indescrivibile la sua bocca, ma era impossibile stancarsi. La strinse. Come nessuno l’aveva mai stretta.
O meglio, gli piacque pensare questo.
I suoi seni erano compressi dal corpo di lui.
Sentiva il battito.
Gli occhi gli dicevano “voglio leccarti il cuore”.
Si perse.
Il sole tramontò.
E le gatte tornarono a schiacciarsi contro i muri.

 

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Anche lì, in mezzo a quella terra di nessuno, fatta di polvere, ombre e fiati di vento, col cielo azzurro e la notte buia senza stelle..
Là fuori dove tutti i sogni si nascondono,
là fuori il vento non soffierà,
là fuori le brave ragazze muoiono,
e il cielo si muove piano,
là dove non si sentono gli uccelli cantare né i campi crescere o le campane suonare.

Anche lì, due figure erano quel tanto vicino che un proiettile ti tiene in vita per miracolo.
Erano anni strani. Anni fluidi. Dove le distanze si facevano sentire ed era sempre l’ora di partire.

Capelli lunghi castani ed occhi imbarazzati.
Era, forse, proprio come lei voleva che fosse.
Uno spaccone che raccontava poesie e cantava la vita.
Una specie di principe, decaduto, tipico di quegli anni fluidi.

Tu sei un folle! –
Taceva lui.
Mi chiami amore, ma le chiami tutte così – 
Lo stava sfottendo. Lui non fece una piega: – Ma tu, sei tu.
Non giocava mai di rimessa, attaccava sempre, timido spaccone qual era.
Lei sorrise.
E poi lo sai, io sono un rimanda-piacere. –
(“e ti sbagli su questo” dissero i di lei occhi)
Occhi nocciola. Occhi indomiti e fintamente freddi. Occhi che sapeva,lui, quanto potessero bruciare. Occhi che tradivano la maschera che non indossava consapevolmente.
Le prese il polso, per sentire la sua pelle fresca e morbida. Per sentire il battito ed il caldo.
Indomita, voleva liberarsi.
Strinse.
Aprì gli occhi leggermente ed un soffocato alito di dolore gli accarezzò i sensi.
Aveva un vestito da festa, color pesca.
Le gambe erano scoperte fin dove era lecito e la schiena era roccia levigata da vulcani estinti.
Allontanati! –
– Altrimenti che fai? –
– Tu allontanati… – 
Lei non sentì.
Lui era seduto, vicino ad muro fatto di assi di legno scuro. La testa inclinata.
La festa continuava fuori, il mondo girava intorno al sole e tutto andava come doveva andare.
Tranne lì.
Lei era appoggiata a qualche metro da lui, faceva capolino il suo viso dipinto tra lunghi capelli d’oro ed ebano, con la carnagione d’agosto ed un trucco non necessario ad aumentare una bellezza spudorata.
Non sfidarmi. Io ti dico una cosa, tu la fai. – sapeva quanto odiasse gli ordini.
La sua non-risposta fu compensata dallo sguardo. Riuscì a non abbassare lo sguardo.
Tenne testa.
Le piacque.
Si avvicinò.
Non aveva paura.
Il cuore galoppava a briglia sciolta.
Le sue ginocchia  furono urtate da quelle spigolose di lei; vide le sue cosce…
Lui alzò la testa.
Lei lo guardava dall’alto; il viso ombrato dai capelli.
Un neon sopra, sembrava un sole in quel frangente.
Percepì il sorriso che voleva dire : – Ed ora fammi vedere che fai... –
La sedia in plastica bianca da quattro soldi fu scaraventata da uno scatto.
Le sue mani la presero dai fianchi e la sollevò da terra.
Si girò.
La sbatté al muro, con tutta la violenza che non avrebbe nociuto.
Lei era in balia della sua tempesta.
Le prese il viso tra le mani.
Lei ansimava.
Il petto si gonfiava ritmicamente.
Lui sentì il suo odore.
Era come sangue.
Le scoprì il collo.
Fosse stato un vampiro ne avrebbe succhiato tutto il sangue.
Ma fece peggio…
Il suo sguardo era come se dicesse : – Non lo fare! – da una parte e dall’altra parte però…
Toccò la sua lingua con la sua.
Unì le sue labbra alle sue.
Le mani erano gabbiani a pelo d’acqua sull’oceano.
Il suo sapore era….
Strinse il suo corpo al suo.
Voleva, avrebbe voluto.
Non successe.
Non se lo domandò.

Erano lì..

Là fuori dove tutti i sogni si nascondono,
là fuori il vento non soffierà,
là fuori le brave ragazze muoiono,
e il cielo si muove piano,
là dove non si sentono gli uccelli cantare né i campi crescere o le campane suonare.
In una terra fatta di polvere.
Dove le stelle non ci sono.
Ma loro quella notte, brillarono.

 

 

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-Cazzo! – 
– Rilassati, dude! –
– Cazzo! –
(risata dell’altro)
– Cazzo ridi? Sto nella merda…
– Tu (risata) staresti (risata con testa reclinata) nella merda (parola farfugliata causa risata)? –
Tirò ancora una volta la sigaretta, il filtro umido e mozzicato per il nervoso.
Jay beveva in compagnia di Jack. Una mano teneva la bottiglia, l’altra librava nell’aria, si appoggiava sul suo viso, muoveva i capelli lunghi castani, tamburellava sul divano di pelle rovinata. E fissava con lo sguardo allucinato l’altro.
– Fanculo Jay, sei di nuovo in trip? –
(risata sfumata in ghigno)
– Rilassati, dude.…. perchè ti incazzi? –
– Ho fatto schifo e non mi sento in pari col mondo. –
Non lo sarai mai, darai la colpa a qualcuno te la prenderai e rimarrai deluso.. poi la notte, quando ti confonderai con la tua ombra, lì solo nella tua stanza col mondo fuori a far baldoria, capirai … –
Che cazzo vuoi dire, Jay? –
La bottiglia di Jack vola per la stanza a tinte di rhum. (tono alterato) – Smettila di piangerti addosso e cazzo reagisci! La devi smettere di avere paura, di non osare..  (tono rientra in tonalità più pacate e dolci) librati sul mondo, staccati dalla terra, vola ad un metro e segui il vento, segui il sangue, senti il suo circolo, sii te stesso –
– Puzza di marcio e sudore, sono inebetito, non riesco a reagire – 

– Uh…. bello…. lasciati sopraffare…. sprofonda….. arriverai così giù, così in fondo che uscirai dall’altra parte, eppoi ti dovranno vedere a testa in su. –
– Ma quanto cazzate spari Jay? –
– Ahahah… io sono il Re Lucertola…ed io posso tutto, no? –
– Si ricordo… una storiella che raccontano ancora oggi.. –
(denti tra una barba folta, ora ha inforcato un paio di Persol tartarugati) – Già! –  
– Come ti guadagni da vivere Jay? –
– Nel modo più bello di tutti i mondi: coi sogni degli altri! –
– Te ne sei sempre fregato eh? –
– Ehi, dude, rilassati, sei tu che stai sognando, sei tu che hai invocato il mio pazzo spiritello libero. – (continua a ridere, innervosisce, riprende a bere con Jack).
Ma dove siamo? –
– Ah… io non lo so, che cazzo è sta stanza? –
– E’ la prima volta che la vedo. –
– Mi ricorda tanto una sera a New Haven…. oh Cristo… che scopata che mi sono fatto… si chiamava Mary Rose, figlia del sindaco di un paesino lì vicino… che anno sarà stato? –
– Jay….. –
– Forse il ’67? –
– Jay!  – (tono più alto)
O il ’68? – (cerca un accendino per la Lucky Strike)
– Cazzo, Jay! – (urlo)
(occhiali abbassati sul naso, sguardo da sopra gli occhiali) – Hey man, inizi a rompere… fuck u! –
Ho bisogno d’aiuto. –
– Mi hai rotto i coglioni con sta fottuta storia di questo fottuto aiuto, cosa vuoi? –
(l’altro serra la mascella e stringe i pugni)
E’ un problema di metodo il tuo… dici tante cazzate in giro, la gente ti crede, e sei vittima di te stesso. Ti metti briglie e pesi inutili, guardi nel posto sbagliato… devi vedere bene, devi vedere meglio….– (lo sguardo si assottiglia)
– Dici? –
– Guardati… chi sei? –
– Io sono io! –
– Uh…. ok… e sei vivo? –
– Si. –
– Ed io sono vivo? –
– No. –
– Uh…. (si avvicina all’orecchio dell’altro) sbagliato!!! – (urlo)
Cazzo, ma sei scemo? Mi hai stordito –
(risata satanica, braccia a formare una croce, una mano con la bottiglia di Jack, una mano con una sigaretta infarcita di coca, testa reclinata e camicia nera aperta sul petto glabro, un piccolo crocefisso è impiccato al collo) – Lo vedi? (ride) od io sono vivo… o tu sei morto, e non lo sai!
– Voglio svegliarmi! –
(urla di Jay, saltella con una gamba alzata e le braccia al cielo, ha sempre le stesse cose in mano)
– Voglio svegliarmi! –
(urla di Jay, schizzi di Jack) – Fallo! Svegliati… è ora! E’ ora di svegliarti e lascia stare il sogno… può essere un incubo al tuo risveglio… –
– Fottiti Jay, fottiti!!! –
(ride fortissimo, gli occhi spiritati) – Bravo… falla entrare tutta… falla entrare in circolo, fai spruzzare adrenalina a quel cuore di merda che ti ritrovi… torna ad incazzarti, torna a dare pugni (ha la bocca aperta e gli occhi fissi, si muove scoordinato)

Scende una cappa di umido nella stanza, una pianola fa eco nel corridoio.
– Voglio sentire il sapore, voglio ascoltarla, voglio annusarla. La morte viene una volta sola, giusto? Non voglio mancare all’appuntamento. […] Amico non lo so. Potrebbe essere l’esperienza che ti fornisce il pezzo mancante del mosaico… – 
furono le ultime parole di Jay.
Diede una pacca all’altro sulla spalla.

– Dove vai? –
Il profilo si intreccio con un ghigno beffardo.
Le porte sul muro (non le aveva notate) si aprirono. Una luce (un riflettore puntato) squarciò il buio vincendolo senza scampo.
Urla dalla luce..
“Jay! Jay Jim Jay! Jay! Jay! Jay! ”

This is the end
Beautiful friend
This is the end
My only friend, the end

Of our elaborate plans, the end
Of everything that stands, the end
No safety or surprise, the end
I’ll never look into your eyes…again

Can you picture what will be
So limitless and free
Desperately in need…of some…stranger’s hand
In a…desperate land

Lost in a Roman…wilderness of pain
And all the children are insane
All the children are insane
Waiting for the summer rain, yeah

 

 

L’altro si svegliò.
Completamente sudato.
Puzzava di Jack e Lucky Strike.
Una risata diabolica nell’aria.
Solo vento.
O solo un sogno?

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….

Safir era appoggiato ad un muro, una gamba tesa e l’altra piegata, con la suola del sandalo perfettamente poggiata sulla superficie verticale. Affettava, con un coltellino dal manico rovinato, una mela.
C’erano tante mele ad Errachidia. Grosse, e profumate.
Due figure passeggiavano sulla strada polverosa.
La donna dagli occhi color miele e legno e G.
La notte si palesava totalmente, man mano che si allontanavano dalla strada N10, una larga lingua d’asfalto che divideva la città in due, totalmente illuminata, ma con sempre meno gente a percorrerla a quell’ora.
Case di argilla, con assi di legno a fare la parte di porte, finestre scassate e silenzio. Un lampione illuminava con il suo triangolo di luce un muro irregolare, creando uno strano effetto “bucherellato”.
Ad un angolo svoltarono a sinistra. Un tronco spoglio e tutto curvo, coi rami tagliati, mandava un’altra buffa ombra sulla casa vicina. Sembrava un mostro pronto ad attaccare. Il silenzio dalle case era impressionante.
Il rumore dei passi delle due figure accompagnava solo le loro ombre.
Sopravvivi? – all’improvviso la donna, che si chiamava Ily.
Senza fermarsi, G. la guardò con lo sguardo corrucciato, riempiendo i polmoni con un piccolo respiro dal naso, e con la mascella serrata.
Guardando poi davanti, sui suoi piedi: – Sopravvivo! –
Ma cosa vuol dire? –
– Tu vivi? –
– Certo che vivo! Parlo qui ora con te! –
– Non intendo a livello biologico, intendo ad un livello più profondo ed al tempo stesso più elevato. –
– Ho interessi, coltivo passioni, ho molti amici, corro tutte le sere. – disse Ily.
Sorrise G. . E scosse il capo.
Non intendo a livello sociale, intendo ancora più a fondo…. lo so.. è difficile da spiegare, non l’ho capito io. –
Svoltarono silenziosamente a sinistra, percorrendo una strada parallela a Rue El Hourìa.
Le basse case erano scure, se ne scorgevano le forme per intuito. Un muro di luce ad alcuni isolati davanti. La strada N10.
G. guardò sottecchi il profilo di Ily. Gli parve una via di mezzo tra una dea ed un sogno. Erano gli occhi, lo sguardo, le ciglia a tessere quell’invisibile e pur percettibile tela che profuma di piacere e dolore. Era attratto. Non c’era un motivo. Si disse.
Poi si corresse, quando intrecciò lo sguardo. Era attratto, sì. Dai suoi occhi. Magnetici, ma dolci. Come un pugno in un guanto di seta. E dal suo profumo.
Sembrava di vedere i ciliegi fiorire ed i mandorli scuotersi sotto i tuoni dell’estate al meriggio.
– Sono qui perché fuggo. – disse all’improvviso.
– Da cosa? – rispose di getto Ily.
– Molto probabilmente da me stesso. –
– Ma è assurdo! Come puoi? Che significa? –
Non poteva dirle come stavano le cose, cosa era, cosa aveva fatto nella sua vita. Non poteva dirle come era cambiato nel tempo. Anzi, di come i tempi fossero cambiati.
Una nebulosa intricata che bloccava tutti i suoi pensieri.
Una volta era un uomo libero. Voleva ritornare ad esserlo.
Come quando si è bambini a giugno e la scuola finisce.
Era sceso a compromessi con la vita. L’aveva sfidata, e qualche battaglia l’aveva vinta. Ma le ossa se le stava rompendo, vuoi i colpi, vuoi gli errori, vuoi gli anni.
Aveva conti in sospeso, lacerazioni, black out di vissuto che, non cicatrizzati bene, gli provocano dolore. Un dolore sordo ed impalpabile. Tonfi cupi, vibranti scie scure, in una perdizione continua verso l’abisso.
G. soffriva di depressione.
Sapeva mascherare, ma il macero che lo consumava dentro toccava carne viva.
Il suo volto diventò una maschera.
La luce della strada principale illuminò i loro visi.
Ily si accorse che c’era qualcosa che non andava in G. . Qualcosa di duro come le rocce intorno a Errachidia. Qualcosa di buio come la notte nel deserto marocchino. Qualcosa che,  come le rocce intorno a Errachidia e la notte nel deserto marocchino, inesorabilmente l’attirava.
– Ti rivedrò domani? –
– Può essere anche che sia solo un sogno e che svegliandomi non ti ritrovi più in nessun altro posto.. –
Si salutarono così le due figure, una notte di giugno a Errachidia, in Rue el Hourìa.

 

 

(…continua)

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….

 

Il vento del deserto era un’orgia di carezze.
I capelli come contorno a due occhi espressivi, incastonati, di un colore che ricordava il miele ed il legno.
Occhi che parlavano, occhi che erano un labirinto in cui era sin troppo ovvio perdersi.
– Cosa ci fai qui, nel bel mezzo del deserto? –
– Lavoro. Un viaggio di lavoro. –
Alla risposta G. rimase in attesa, coi gomiti sul tavolino prima, poi indietreggiando, come impaurito, fin quando l’ostacolo della sedia in ferro battuto lo fermò, braccandolo.
– Lavoro presso una società di consulenza. –
Imperturbabile G. ascoltava, come se si aspettasse che continuasse a parlare.
– Ok, accompagno il capo, si parla di petrolio, di assets strategici, infrastrutture. – visibilmente triste.
– Avresti voluto essere a Marrakesh? –
– Divertente, comunque si. –
Così dicendo mandò giù un altro sorso di tè.
Gli occhi parevano velarsi di tristezza.
– Se penso cosa avevo deciso di fare della mia vita, e se penso dove sono ora… – disse mentre lo sguardo si mischiava all’orizzonte violaceo.
Non mi sembri messa male, alla fine è solo un lavoro. Si può sempre cambiare.
Le persone non cambiano. I tempi sì. – e dicendolo lo fissò.
Mandò giù la saliva ed accese una sigaretta. Ancora una Camel Light.
E pensare che neanche volevo venirci in Marocco. Per fortuna ho cambiato idea. – abbassò lo sguardo e sorrise.
Le palme parvero muoversi a rallentatore, un rallentamento breve, ma stupendo. Anche le gocce di condensa del tè scendevano piano, inesorabilmente.
La dolcezza che poteva percepire da quella figura di donna non riusciva a metterla a fuoco. Non sapeva la portata di quel “pericolo”. Era ignota. Apparsa dal nulla. Oscura per certi aspetti. Eppure gli ricordava la potenza visiva dei fiori di melo.
Io non parlo con gli sconosciuti, o meglio, non mi ci siedo a bere del tè, in mezzo al deserto. – 
– E cosa devo pensare? – 
– Che sono qui, ora. –
G. glissò, sterzò, virò completamente argomento: – Ho percepito che non ti piace questo lavoro. Cosa avresti voluto fare? –
La risposta sua fu secca : – Stilista!
– Bello! Ti ci vedo perfettamente .-  tutto di lei l’attirava, ormai.
Capitava che si fissassero.
Si domandava il perchè. Mai risposta fu così poco reclamata.
Era stanca. Lo vedeva e percepiva dallo sguardo.
Non andava via.
Rimaneva lì.
E tu di cosa ti occupi? –
– E’ più semplice dire di cosa non mi occupo. –
– Addirittura? –
– Sono un megalomane e tendo ad essere un ingigantitore cronico, o se vuoi uno sparacazzate. –
– Non credo tu dica cazzate. –
– Potrei mentire su tutto. Dalla mia età, al mio nome, che tra l’altro non ricordi. –
Sorrise stupefatta e colpita.
– Tranquilla, neanche io mi ricordo il tuo. – (ghigno da sciupafemmine)  e continuò: – posso dirti tante cazzate, sono un raccontastorie nato. –
Si fece perplessa, ma non diffidente. Anzi, si incuriosì molto e questa volta fu lei ad attendere la risposta.
Aspirante diplomatico, con velleità da romanziere da quattro soldi. –
Era soddisfatta. Annuì quasi come se si aspettasse un quadro del genere.
Non parlò, ma G. credette di sentire la sua voce in testa che gli diceva – ehi, tu sei interessante davvero! accidenti.. –
E cosa ci fa un aspirante diplomatico, con velleità da romanziere da quattro soldi, a Errachidia?
Buttò fuori il fumo dal naso e dalla bocca, posò la cicca nel posacenere che stava fissando e schioccò lo sguardo come un colpo di pistola, il bersaglio i suoi occhi :  – Sopravvivo – .
Una folata di vento caldo e puzzolente di città sparigliò lo spazio davanti al Cafè Jeauloll, in Rue El Hourìa.

 

 

(….continua)
 

 

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Il sole entrava nell’orizzonte confondendosi coll’umidità e gli uccelli.
Gli piaceva pensare che fossero gabbiani, urlanti sul mare.
Rosso acceso.
Il cielo era di pesca.

Errachidia, Marocco.
Era lì.
Un tè alle porte del deserto.
Sedie in ferro battuto, tavolino spartano. Una sigaretta bruciava su di un posacenere consunto ed ammaccato.
Il tavolino grigliato, piccoli quadratini. Fittissimi.
Scorse il suo piede su un misto di terriccio rosso ed asfalto.  Tutto era polvere. Tutto era caldo.
Scrutava la mappa che lo avrebbe portato dal vecchio Thalid, un vecchio eremo che si dice essere “in pace col mondo”.
Ne sentì parlare a Vienna, durante un convegno di archeologia egiziana.
Volò in Marocco. Non ci era mai stato.
E fu amore.
Erano passati già 3 giorni, ed il fresco di Rabat aveva lasciato posto a quelle terribili escursioni tipiche del deserto.
Un caldo insopportabile.
Da sconfiggere col caldo.
Quel tè era una manna dal cielo.
La sua guida, Safir, era loquace, parlava un ottimo francese e cercava di essere elegante nei modi e nella forma. Era contento.. poter parlare con qualcuno che veniva “dall’Europa” era una novità entusiasmante.
All’improvviso, G. si alzò. Prese il suo pacchetto di Camel Light e l’accendino blu dalla tasca.
Ficcò una sigaretta in bocca e lasciò i suoi occhiali da vista sul tavolo.
Non appena si girò, la vide.
Capelli neri. Lunghi. Bocca carnosa e pelle bianca. Lunghe ciglia appesantite da un leggero tocco di mascara e mani sottili come le ombre del tramonto.
Rimasero immobili entrambi.
Percepì il suo sguardo.
Uno sguardo che parlava, che scavava, che elevava.
“Salve!”.
“Piacere.”
Si dissero i nomi, ma G. lo dimenticò immediatamente.
Era una prassi consolidata: presentarsi a qualcuno, e non immagazzinare alcun ricordo riguardo a nomi, cognomi, date di nascita.
Quella volta, però, non fu solo la prassi a giocare lo scherzo. Fu la sorpresa.
Una donna italiana, presumibilmente tra 30 ed i 35 anni, elegantissima, fasciata da un vestito nero su sandali aperti, non è proprio quello che qualcuno può aspettarsi a Errachidia.
Goffamente si allontanò, con il fumo che lambiva la spalla destra, come quelle immagini di vecchi treni a vapore in corsa.
Sbuffacchiava nervosamente G.
Cosa ci faceva lì quella donna?
Chi era?
Perché era lì.
Si placò e si diede dello stolto. D’altronde, pensò, anche lei avrebbe potuto domandarsi le stesse cose.
La curiosità lo fece tornare indietro. Ogni passo era scandito dalla stupidità di essersi allontanato all’improvviso senza magari intrattenere una piacevole conversazione con una donna, che a primissimo impatto, pareva essere interessantissima.
Tornò indietro su Rue El Houria verso il Cafè Jeauloull.
Ci passò davanti non badando nemmeno a Safir.
Niente.
Non scorse nulla che assomigliasse a quella visione improvvisa.
Che fosse stata un’allucinazione?
Chiuse gli occhi.
La sigaretta accesa nella mano destra. Il fumo che saliva verso l’alto lambendo il braccio come il serpente del bastone di Eusculapio.
Riempì i polmoni di quell’aria che annuncia le sere nel deserto.
Le palme ondeggiavano contente dell’ombra che le stava coprendo ancora una volta, una volta di più..
Sperava di recuperare qualche particella del suo profumo.
Profumo di donna…..
Si girò e…..rimase goffamente colle spalle dritte ed i polmoni compressi dall’aria intrappolata dal lungo respiro.
Sgranò gli occhi.
Quella donna…. era lì.. seduta al tavolo con Safir, che invano lo aveva chiamato poco prima.
Imbarazzo e stupore si intrecciarono sulle linee del suo viso.
La donna se ne accorse. E sorrise di gusto.
Un sorriso tanto bello, quanto pericoloso….

(…continua)

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Recupero cocci

Ok.
Ho gettato la spugna.
Accetto la sconfitta, la mia. Recupero i cocci.
Mi taglio le mani.
Esce sangue e sento dolore.
Ma sono sereno.
Sereno.
Hai capito?
Ho gettato la spugna.
Non ce la faccio. Non è la scorciatoia, non è la via facile.
All’improvviso è buio pesto.
E mi chiedo. Mi domando… parecchie cose.
Dare la colpa agli altri è l’unico allenamento quotidiano cui non ci sottraiamo mai.
Ho sbagliato i conti, i calcoli, il progetto.
Rimangono i cocci.
Che sto già raccogliendo.
E’ finita.
It’s over para mi.

Che non ce la faccio più, davvero.
Che devo staccare, sul serio.
Che devo svoltare sta vita.
Oggi ti ho lasciato, non ci siamo ancora detti una parola.
Ti ho voltato le spalle io stavolta. E te lo dovevi aspettare.
Per te ho sacrificato non poco.
Il tempo e lo spazio.
E cazzo se non è poco.
Sono miei quei due.
Tu non hai messo un cazzo in fin dei conti.
Ti sei fatta scopare.
Abbiamo goduto… si… vero.
Ma poi?
Che sta tutto in una scopata?
Per una scopata mi devo bruciare?

Allora vaffanculo.

Non vado ancora via.
Devo prima prendermi la mia sconfitta in modo teatrale e lampante.
Devo sbattere sta capoccia contro ar muro.

So già che ci faremo qualche scopata ancora. Come tutte le storie tristi che tristemente finiscono.
Poi non rimarrà niente.
Qualche ombra di qualche ricordo..
il tuo profumo…
ma niente altro.

Mi hai rotto il cazzo.
MI VEDI O NO?
Troia.

Guarda come sono ridotto……………….

Non ti giri nemmeno eh?
Roma…sei proprio una stronza…

 

 

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