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Archive for ottobre 2013

ci vorrebbero più abbracci
per sentirsi meno soli
per strappare via
quel macigno vuoto
che sta nel petto
di quelli che non possono
farsi bastare solo questo
momento bastardo che viviamo.
Dio, si. ci vorrebbero più abbracci
sentire più pelle
sentire più calore
per vivere meglio
per non perdersi
per ritrovarsi
sentire le ossa
la pancia
il miele
per sapere di non essere soli.
inutili cattedrali in deserti bollenti
che solo freddo lasciano
e brividi brutti
che seccano i fiumi di gioia.

Dio…
ci vorrebbero più abbracci.

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L’anima stracciata. 
Il sangue seccato.
La persiana sbilenca.
Il ronzio del condizionatore.
Le zanzare.
Eppure il sole continuava a scendere. 
Come fosse ferito, diventava rosso, i suoi schizzi nel cielo.
Monet bestemmierebbe. 
Mille girasoli piangono.
Cercano all’orizzonte, la madre che va via per la notte, girare la città.

La pelle si scioglie in mille diamanti, di sudore e di lacrime.
I respiri affanni mostruosi. 
Di sforzi mostruosi.
Di paurosi interrogativi lasciati dietro porte di legno marcio.

I girasoli continuano a piangere.
Il cielo tira la coperta.
Il caldo sale dalla terra. 
Passa nelle unghie, nelle dita e nei polsi. 

Versava il suo bacio nella sua bocca.
Le lingue erano mari che si incontrano.
Burrasche violente che non promettevano nulla di buono.

Eppure in quel burrone, 
dolce era la caduta,
soffice la resa.

Mille stelle ed una luna, dietro il cuore.
Scivolava dietro ognuna, 
non ne teneva per sé nemmeno una.

Riprese e scontri.
Un infrangersi su letti e lotte. 
Brividi. 

Brividi tremendi.
Che scuotevano la polvere.
Che facevano tremare. 

I girasoli dormono. 
Le cicale gridano.
Una musica in sottofondo. 
Il bambino con la rosa.

Le mani tra le candele.
Una lacrima sulla guancia.

Poi tutto è buio. 
Non ci sono santi. Non ci sono lieti fini.
Ci sono solo la gloria, le lenzuola, il pepe verde, le cicale. 
Rimane la musica. 
A gloria l’attesa.

Ed i girasoli.

Che ridono. 
Manca poco all’alba.

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Ho sempre voluto ambire. 
Mirare in alto.
Tirare il petto in fuori.
Essere eccezionale.
Fuori dall’ordinario.
Ammirato.
Di più.
Una continua tensione verso la gloria, il rispetto, l’essere temuto.
Una innaturale propensione all’autodistruzione.

Posso dire, come te che leggi, che ho vissuto.
Vissuto diverse vite. 
In cui ogni volta, morivo un po’.

Capita, mi dico.
Capita, che poi quando qualcuno che ne fa parte, fa il salto, e puff, lo perdi. 
Si sgancia da te. 

Ho visto molte persone nella mia vita. 
Far capolino.
Scompigliare tutto. 
Sparire. 
Chi in punta di piedi, chi sbattendo la porta.
Chi dando fuoco, chi pugnalando.

Era la gloria ad accecarmi.
La gloria.
O come si dice da qualche parte: ” a gloria”.

Voler essere diverso.
Voler essere migliore.
Sentirsi inadeguato.
Sentirsi stomacato.
Sentirsi stretto. 
Che le costole fanno male ai polmoni, che non riesci a respirare bene.

La gloria la immaginavo, la immagino, in forme disparate.
Dal guidare una nazione, una città, una multinazionale.
Passando dal prendere 10000€ al mese, o magari essere un diplomatico.

Qualcuno mi ha detto che devo fare le cose per me. 
Devo vivere in funzione mia.  Non degli altri. 

Qualcun altro invece mi insegna tanto con la sua STRAordinaria normalità.
Gente che resiste. Gente che non si smuove dalle tempeste intorno.
Gente che ti vuole ancora, che ti raccoglie nonostante quello che ti senti essere.
Un rudere. 
Un catorcio rumoroso. Che inizia anche ad arrancare. 
Che ha perso volontà di potenza, che ha perso voglia di ambire. 

Che ha capito qualcosa in più. 

Che la mia vita non è solo ora. 
Che tutto non lo puoi racchiudere in un post.
Che uno sguardo però può dire più di tante tante tante parole.

Io chiudo così. Come mi capita di dire spesso in questo periodo.
Io domani muoio. 
Quindi non me ne frega un cazzo. 

Come dice il mio amico Mario, è solo una buona scusa per fottere.
Ma alla fine… come si viene al mondo?

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che coglione #2

Rue Carreterie non è di sicuro una delle strade più belle che abbia mai percorso.
Palazzi anonimi, due piani, una leggera, continua, monotona, noiosa curva verso sinistra che porta verso il centro della città.
E’ la prima strada che calpesto ad Avignone.

Ho lasciato la macchina, forse è ironia (no non me ne frega un cazzo), ad un parcheggio detto “des Italiens”.
Sono le 7,30 di pomeriggio.
Caldo. Fa caldo.

Tre maghrebini sono seduti davanti ad un negozio che vende kebhab.
Una libreria piccolissima abbassa le saracinesche.
Poche persone camminano in lontananza e le macchine sono poche.

Mi sento bene.
Non sento il capo da quando gli ho inviato una foto via mail. L’ho fatta questa mattina, fermo ad una stazione di servizio in autostrada, subito dopo Cannes.
Un intero scaffale di Vanilla Coca Cola. Una droga. Senza dubbio per me. Ne ho comprate solo 2 di lattine. Scolate. In macchina.
Gaia mi ha guardato attonita, rideva di gusto.

Ora passeggia affianco a me. Ha i capelli a caschetto, una canotta a righe bianche e nere ed un grande occhiale nero.

Nella piazza dove sta il Palazzo, mi sono seduto sulla balaustra, vedendo il Rodano e le vigne dorate che si torcono al vento che risale la collina dove mi trovo.
“Ti piace” – chiedo a Gaia.
Muove la testa, dice si. Sputa il fumo dal naso.
Mi piace tutto quello che fa. Anche il fumo dal naso. Che è una cosa che di solito odio.
Penso che stanotte dormiremo insieme in uno squallido IBIS di periferia, tra centri commerciali e fast-food franco-americani.
Ho l’ansia.

Tre ragazzini ballano breakdance davanti a dove papi e cardinali sfilavano millantando il popolino.
Rido.
Mi sto facendo crescere i baffi per darmi un tono e nascondere un po’ il viso.
Rido sotto i baffi.

“Ho fame”.

Seguo Gaia tra le persone, sento il suo profumo in mezzo alle cipolle, ratatouille ou aïoli, confit di canard, e sudori vari.
Il mondo sta in una piazzetta con un orologio piazzato su una torre gigante,
i bambini sui dondoli della giostra,
il vecchio pittore col naso rosso che fuma vicino al piedistallo,
la rumena che si tiene in equilibrio e ferma nel sarcofago di Nefertiti,
la russa biondissima che fuma una Cartier sottile come la carta di credito che si è sposata,
la massa sui tavolini a bere Perrier e dire quanto è bella la Francia.

Seguo Gaia tra le persone, guardo quello che fa e mi sembra di conoscerla da sempre.
Chiedo ad un ragazzo un pezzo di carta ed esco la mia Montblanc di scorta dal jeans che indosso.

“in punta di piedi, il pozzo si scuote, i muri crollano, i Papi scappano. Ammazzami con quella bocca”.

“Che scrivi?”
“Niente”
“Come niente? Cosa scrivi?”
“Nulla, un pensiero che mi è passato per la testa. E’ per contratto” e dicendo così faccio una smorfia stupidamente orribile con la bocca.
Forse se l’è bevuta.

Mi affianco a lei, scivolo come nulla fosse su lastre colorate per indicare ai turisti dove andare a farsi spennare.
“Chi sei tu veramente? No perché ieri e stamattina ero ubriaco. Ma tu chi sei?”
Sorride. Sorride come poche volte ho visto fare.
Come una scena accelerata in cui il sole sorge improvvisamente su un campo di grano immenso.
Come quei documentari in cui in silenzio caschi in mare.
Non gli ho chiesto più nulla.
Tre passi indietro ed ho continuato a seguirla.

Camminando tra le pietre chiare, arrivati davanti ad un ristorante, il Salicorne, non ce la faccio più.
Mi butto sulla sedia.
Subito un crapaud mi si avvicina, gli do la comanda.
Davanti a me, sotto un ombrellone, con la luce ambrata dell’illuminazione pubblica, parlo con questa armena che non conosco.
“Sono una poliziotta”.
Mi sistemo sulla sedia, tiro bene la maglietta.
Lei sta ridendo come una pazza.
“Ho detto una poliziotta?”
“Si”
“E di cosa ti preoccupi?”
“Reazione istintiva”
“Hai qualcosa da nascondere?”
“Chi non ce l’ha è morto”
Alza il bicchiere di Chateauneuf du Pape che ho ordinato, in segno di stima.
Rapido rispondo con uno di quegli sguardi da coglione cui solo io per mistero della fede sono capace.
“Lavoro per la polizia. Non sono una poliziotta effettiva. Sono una psicologa che aiuta la polizia”.
La mia faccia deve avere detto senza parole la domanda che mi sono posto in testa.
“I miei genitori sono italiani, sono nata in Armenia perchè… ehi! un attimo! non te lo devo mica dire?” – e tira giù un sorso pieno.

“Tu invece chi sei?”
“Faccio prima a dirti chi non sono”
“Spara”
Schiarisco la voce, accendo la sigaretta, mi metto a 3/4, apro la bocca: “non sono un coglione”.
E’ tutto quello che riesco a dire. Che coglione.

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Mi sveglio all’improvviso.
Io mi sveglio tutti i giorni all’improvviso.
Come quasi che dall’apnea torno a respirare.

Anche oggi mi sono svegliato così. All’improvviso.
La tapparella è bucherellata bene.
Alcuni buchi sono illuminati. Potrebbe essere il sole.

Guardo l’orologio.
E’ il sole.

La testa preme per bene le tempie.
Provo ad alzarmi.
Barcollo.
Ok ho bevuto.
Quanto tempo fa?
3 ore fa? ieri? una settimana fa?

Ho la bocca che sembra piena di terreno e metallo.
La saliva non me l’hanno data oggi.

Inizio a ricordare. Butto dentro aria e domande. E metto a fuoco, lento, cose persone odori ed occhi.

Ieri sera mi sono arrampicato con uno scooter su per un paese, credo che si chiami Alassio. Due persone che ho conosciuto 2 ore prima mi ci hanno portato, vuoi l’ospitalità, vuoi che non avevano niente di meglio da fare. Una gran bella mangiata di pesce. Cazzo non ricordo che pesce ho mangiato.
Vino.
Tanto vino.
Cazzo non riesco a ricordarmi il volto di lui. Era una coppia! Si era una coppia!
Il vino. Quanto vino.

Si. Ricordo. C’era odore di limoni, di sigarette alla vaniglia e di alberi caldi.
Non so ancora come spiegarmi l’odore di alberi caldi.

Squilla il cellulare. Rispondo.
Il mio capo vuole che sia a destinazione per il pomeriggio. Mi sta sul cazzo.
Si può dire cazzo?
Mi sta sul cazzo. Ok.
Però passa i soldi.
Ho bisogno di soldi.

Giorgia! Ecco. Ricordo il nome di lei. Giorgia! Capelli rossi, slanciata, occhi verdi come gli alberi caldi di ieri sera (però era notte e quindi non so se il verde è lo stesso).

La sento che canticchia una canzone, il caffè strida nella Bialetti e le tazze fanno un casino allucinante nella mia testa.

Appena mi affaccio in cucina, saluto Giorgia. Si, si chiama Giorgia perché mi risponde sorridendo.
La ringrazio dell’ospitalità. Del caffè. Del letto.

Mi fa trovare una sacca, con dentro della focaccia ligure. Anzi. Tre tipi di focaccia ligure.
Li elenco:
– salata (secca)
– col prosciutto cotto
– col formaggio

Per il momento mi gusto il caffè.
Qualcosa non mi torna.

Vedo un borsone che non è mio, vicino al borsone che è mio.
Inizio a ricordare.

Ho conosciuto una ragazza armena.
Che credo si chiami Aglaia.
Una ragazza armena che si Aglaia che io tutta questa notte ho chiamato Gaia.

Gaia. Si. Ho taciuto di quel significa il suo nome.
Il borsone mi fa ricordare tutto.
Partirà con me.
Anche lei va in Francia.

Così mi carico in macchina una perfetta sconosciuta, conosciuta con persone sconosciute indicatemi dal mio capo.
La faccenda prende una buona piega.
O pure è l’inizio di qualche altra storia di merda.

Aragostella!
Aragostella…. è il pesce che ho mangiato ieri!

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