Rue Carreterie non è di sicuro una delle strade più belle che abbia mai percorso.
Palazzi anonimi, due piani, una leggera, continua, monotona, noiosa curva verso sinistra che porta verso il centro della città.
E’ la prima strada che calpesto ad Avignone.
Ho lasciato la macchina, forse è ironia (no non me ne frega un cazzo), ad un parcheggio detto “des Italiens”.
Sono le 7,30 di pomeriggio.
Caldo. Fa caldo.
Tre maghrebini sono seduti davanti ad un negozio che vende kebhab.
Una libreria piccolissima abbassa le saracinesche.
Poche persone camminano in lontananza e le macchine sono poche.
Mi sento bene.
Non sento il capo da quando gli ho inviato una foto via mail. L’ho fatta questa mattina, fermo ad una stazione di servizio in autostrada, subito dopo Cannes.
Un intero scaffale di Vanilla Coca Cola. Una droga. Senza dubbio per me. Ne ho comprate solo 2 di lattine. Scolate. In macchina.
Gaia mi ha guardato attonita, rideva di gusto.
Ora passeggia affianco a me. Ha i capelli a caschetto, una canotta a righe bianche e nere ed un grande occhiale nero.
Nella piazza dove sta il Palazzo, mi sono seduto sulla balaustra, vedendo il Rodano e le vigne dorate che si torcono al vento che risale la collina dove mi trovo.
“Ti piace” – chiedo a Gaia.
Muove la testa, dice si. Sputa il fumo dal naso.
Mi piace tutto quello che fa. Anche il fumo dal naso. Che è una cosa che di solito odio.
Penso che stanotte dormiremo insieme in uno squallido IBIS di periferia, tra centri commerciali e fast-food franco-americani.
Ho l’ansia.
Tre ragazzini ballano breakdance davanti a dove papi e cardinali sfilavano millantando il popolino.
Rido.
Mi sto facendo crescere i baffi per darmi un tono e nascondere un po’ il viso.
Rido sotto i baffi.
“Ho fame”.
Seguo Gaia tra le persone, sento il suo profumo in mezzo alle cipolle, ratatouille ou aïoli, confit di canard, e sudori vari.
Il mondo sta in una piazzetta con un orologio piazzato su una torre gigante,
i bambini sui dondoli della giostra,
il vecchio pittore col naso rosso che fuma vicino al piedistallo,
la rumena che si tiene in equilibrio e ferma nel sarcofago di Nefertiti,
la russa biondissima che fuma una Cartier sottile come la carta di credito che si è sposata,
la massa sui tavolini a bere Perrier e dire quanto è bella la Francia.
Seguo Gaia tra le persone, guardo quello che fa e mi sembra di conoscerla da sempre.
Chiedo ad un ragazzo un pezzo di carta ed esco la mia Montblanc di scorta dal jeans che indosso.
“in punta di piedi, il pozzo si scuote, i muri crollano, i Papi scappano. Ammazzami con quella bocca”.
“Che scrivi?”
“Niente”
“Come niente? Cosa scrivi?”
“Nulla, un pensiero che mi è passato per la testa. E’ per contratto” e dicendo così faccio una smorfia stupidamente orribile con la bocca.
Forse se l’è bevuta.
Mi affianco a lei, scivolo come nulla fosse su lastre colorate per indicare ai turisti dove andare a farsi spennare.
“Chi sei tu veramente? No perché ieri e stamattina ero ubriaco. Ma tu chi sei?”
Sorride. Sorride come poche volte ho visto fare.
Come una scena accelerata in cui il sole sorge improvvisamente su un campo di grano immenso.
Come quei documentari in cui in silenzio caschi in mare.
Non gli ho chiesto più nulla.
Tre passi indietro ed ho continuato a seguirla.
Camminando tra le pietre chiare, arrivati davanti ad un ristorante, il Salicorne, non ce la faccio più.
Mi butto sulla sedia.
Subito un crapaud mi si avvicina, gli do la comanda.
Davanti a me, sotto un ombrellone, con la luce ambrata dell’illuminazione pubblica, parlo con questa armena che non conosco.
“Sono una poliziotta”.
Mi sistemo sulla sedia, tiro bene la maglietta.
Lei sta ridendo come una pazza.
“Ho detto una poliziotta?”
“Si”
“E di cosa ti preoccupi?”
“Reazione istintiva”
“Hai qualcosa da nascondere?”
“Chi non ce l’ha è morto”
Alza il bicchiere di Chateauneuf du Pape che ho ordinato, in segno di stima.
Rapido rispondo con uno di quegli sguardi da coglione cui solo io per mistero della fede sono capace.
“Lavoro per la polizia. Non sono una poliziotta effettiva. Sono una psicologa che aiuta la polizia”.
La mia faccia deve avere detto senza parole la domanda che mi sono posto in testa.
“I miei genitori sono italiani, sono nata in Armenia perchè… ehi! un attimo! non te lo devo mica dire?” – e tira giù un sorso pieno.
“Tu invece chi sei?”
“Faccio prima a dirti chi non sono”
“Spara”
Schiarisco la voce, accendo la sigaretta, mi metto a 3/4, apro la bocca: “non sono un coglione”.
E’ tutto quello che riesco a dire. Che coglione.
Read Full Post »