Un gallo non mi ha fatto dormire l’altra notte.
Il suo canto cadenzato m’ha fatto aprire gli occhi in piena notte.
Con sorpresa ho scoperto che la pioggia pure stava cantando a squarciagola e la collinetta difronte alla mia finestra grondava fango da ogni parte.
Nebbia e pensieri hanno fatto il resto, risucchiandomi in una notte insonne.
Il vino che mi ha offerto quell’uomo pacioccone ha perso subito forza.
Oggi la testa vince anche il fegato.
La mattina mi ha scoperto già stanco.
Un passaggio, l’attesa dell’autobus, l’attesa del treno, l’attesa dell’aereo, l’attesa del treno.
Una giornata in attesa. In sospensione. Dopo la notte insonne. Un continuum temporale, dove lo spazio si è annullato.
Sul letto mi sentivo gigante ed oppresso dalle quattro mura. Impossibilitato a muovermi, a girarmi, a respirare.
Poi il cielo coperto ha mandato via quest’ansia. E mi sono riscoperto solo.
Ho riflettuto un bel po’ sulla mia condizione. Ed ancora una volta non ho cavato il ragno.
Attendere. Aspettare. Pazientare. Ghiacciare il sangue. Placare l’istinto. Calmare la pancia. Respirare.
Respiri profondi.
In stazione una donna con l’occhio tumefatto ed i capelli arruffati mi sorride tenera.
Mi avrà colto in questo frangente. Certo è che avrà notato me. Ed io ho notato lei.
Aspetta il treno, il binario opposto. Riceve una telefonata. Si rabbuia. Prende il treno. Sparisce nella nebbia.
Che silenzio ora.
Cosa l’avrà sconvolta?
…
Il cielo si apre leggermente, arrivato in città, vedo ragazzi sfottere i vecchietti, che inermi subiscono le angherie dei più giovani.
Uomo, lo avrai fatto anche tu? Ti penti di averlo fatto o cinico dimentichi quello che hai fatto?
…
Comprato un libro. Nella scrittura a volte, puoi leggere il sangue di chi ha scritto, le parole non dicono tutto, ma spiegano molto.
Gli occhi leggono quello che vogliono, ed il cuore a volte crede in qualcosa che gli dice la testa. Io preferisco la pancia.
Sfoglio la pagina 21. Domani scriverò della pagina 21.
…
Altra stazione, altro treno. Mi chiesero una volta di scrivere degli uomini.
Io adoro le stazioni ferroviarie. I porti. Gli aeroporti. Le stazioni di servizio. Adoro questi posti dove vedi l’umanità in tutto il suo genere, e gli occhi vanno dove vogliono. I volti degli uomini. Sotto gli archi di pietra, non parlano la stessa lingua, ma si salutano in un’altra che non è la loro. Pacche gentili a rincuorare vite che non sono andate come si voleva, a dare una speranza per il domani, o fosse anche solo per un piccolo momento, come a dire “ehi puoi contare su di me!”.
Gli uomini stanchi, alticci, sporchi, con gli occhi pieni di vita, di sofferenza, di scelte, di errori, di sospiri, di bestemmie, di rabbia, di voglia, di nulla. Che riempiono con schegge impazzite e scelte apparentemente irrazionali, anche se tutto ha una logica che si schiude solo col tempo.
Gli uomini della stazioni, dei porti, degli aeroporti, hanno il dono del tempo. E dello spazio. Di decidere dove essere, di prendere ed andare, di lasciare alle spalle tutto ed affrontare col petto domani.
….
Ho viaggiato tranquillamente in aereo. Fortuna ha voluto che fossi solo nella mia fila.
Ho lanciato, furtivo, uno sguardo dietro quelle montagne. Il sole s’è fatto rosso.
Poi è sparito sopra le nuvole.
Rivedo la città. La mia città.
Il posto dove sono entrato in questo mondo.
E’ tutta grigia. Dall’alto è ancora più bella.
Vorrei essere un uccello.
Il mare è gonfissimo. Eppur calmo. Mi impressiona non poco. Sembra quasi possa rompere gli argini e mangiarsi la terra.
Perdendo quota, vedo meglio i dettagli. Le luci. Immagino le persone nelle auto, nelle case, per strada. A tutti loro penso.
Tocco terra. Riprendo peso. Mi ritrovo di nuovo tra aria, terra e mare. Sono a casa.
La stanchezza la trovo nell’ultima fila. E’ al mio fianco e mi saluta. Ricambio.
Corro. Ancora una volta corro. Corro veloce. Le gambe incerte. La corsa veloce.
Trascino la valigia. E’ piena di roba.
Il biglietto al volo. La corsa, il sorpasso di un altro che corre con me.
Ho già la banconota da 5 euro in mano. So che dovrò correre. Senza fiato.
Trecento metri. Corridoi sotto terra, illuminati e puliti. Non c’è nessuno.
Corro veloce. I binari davanti, sento la voce annunciare il treno.
E sento il treno arrivare.
150 metri.
Penso che potrei non farcela.
L’altro non ha ancora girato.
Non posso perdere questo treno. Dovrei aspettare. E non voglio aspettare. Voglio tornare a casa.
Il biglietto passa sotto il led. Si aprono le porte di plexiglas. Il treno a 20 metri davanti a me. Escono i gradini.
Mi fermo in prossimità della porta. Il led col trenino disegnato si illumina di verde e lampeggia. Lo spingo.
La porta sbuffa e si apre.
E si richiude di me.
Subito riparte.
Appena in tempo.
L’altro rallenta la corsa ed impreca. E’ rimasto a terra.
Io torno a casa.
Mi passa l’ultimo flash.
Davanti alla porta, appena il led si è illuminato ed ho spinto il pulsante, ho guardato a sinistra.
Ho ripreso fiato e guardato il controllore, un ragazzo alto coi capelli scuri a spazzola.
Mi ha sorriso.
Ci siamo scambiati un’occhiata di complicità.
Come a dire che ce l’ho fatta e lui è contento per me.
Gli ho sorriso di rimando.
Ha annuito con la testa.
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