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Posts Tagged ‘Bari’

Il posto dove sono nato dall’alto è a forma d’aquila.
Nessuno di noi ne parla o ci pensa mai, ma è proprio a forma d’aquila.
Le ali e la testa, piegata, sul mare, il corpo e la coda in piena campagna di ulivi e muretti a secco.
Non guarda davanti la mia città.
Sembra abbia paura del mare, quasi come si vergogni, forse.
O non riesce a guardare il sole, quando nasce.
Magari si guarda le spalle,
taciturni guardiani di una distesa d’acqua scura e profumata
che sia il ventoso inverno o la stantia estate.
E’ così il posto dove sono nato.
Tanto da dare, ma che tutto tiene.
Siamo tutti fieri, levantini, avvezzi alla parola, di lingua veloci ma fumosi
come certe albe, appunto, o giornate calde caldissime che ti tappano l’aria in gola.
Il posto dove sono nato è tutto mio, come lo è di tutti coloro che ci sono nati.
Qui si nasce, non si vive.
Non riusciamo a lasciarlo andare, come la carne con le ossa, tanto è dentro, nelle viscere,
ci sorprende nelle notti insonni, tra topi e puttane, malandrini e pazzi,
con la gente che passa, che va e viene
pronta a fregarti eppure sempre col sorriso,
quelli del “ci penso io”.
Siamo tutti ladri.
Figli di un furto, adoriamo gente che ha rubato e ne idolatriamo le gesta.
Si. Siamo ladri. Di cose, di donne, di pezzi di vita, raschiamo i fondi, non lasciamo nulla,
fin troppo avvezzi e soli alle sfide che il vento porta, che la salsedine ti salda sotto pelle.
Sognatori e scrutatori di orizzonti, temiamo il maestrale, il vento di su,
abbiamo paura. Siamo codardi.
Perché innamorati di quello che abbiamo.
Non scegliamo noi di nascere in questo posto,
e ringraziamo ogni giorno di esserci,
perché altrove, io non mi sentirei quello che ho ora dentro.
Siamo una contraddizione.
Il posto dove si nasce, ma non si vive.
Il posto dove sono nato.
I fieri del Levante.

 

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Un gallo non mi ha fatto dormire l’altra notte. 
Il suo canto cadenzato m’ha fatto aprire gli occhi in piena notte. 
Con sorpresa ho scoperto che la pioggia pure stava cantando a squarciagola e la collinetta difronte alla mia finestra grondava fango da ogni parte. 
Nebbia e pensieri hanno fatto il resto, risucchiandomi in una notte insonne. 
Il vino che mi ha offerto quell’uomo pacioccone ha perso subito forza. 
Oggi la testa vince anche il fegato. 
La mattina mi ha scoperto già stanco. 
Un passaggio, l’attesa dell’autobus, l’attesa del treno, l’attesa dell’aereo, l’attesa del treno. 
Una giornata in attesa. In sospensione. Dopo la notte insonne. Un continuum temporale, dove lo spazio si è annullato. 
Sul letto mi sentivo gigante ed oppresso dalle quattro mura. Impossibilitato a muovermi, a girarmi, a respirare. 
Poi il cielo coperto ha mandato via quest’ansia. E mi sono riscoperto solo. 
Ho riflettuto un bel po’ sulla mia condizione. Ed ancora una volta non ho cavato il ragno. 
Attendere. Aspettare. Pazientare. Ghiacciare il sangue. Placare l’istinto. Calmare la pancia. Respirare. 
Respiri profondi. 
In stazione una donna con l’occhio tumefatto ed i capelli arruffati mi sorride tenera. 
Mi avrà colto in questo frangente. Certo è che avrà notato me. Ed io ho notato lei. 
Aspetta il treno, il binario opposto. Riceve una telefonata. Si rabbuia. Prende il treno. Sparisce nella nebbia. 
Che silenzio ora. 
Cosa l’avrà sconvolta? 

Il cielo si apre leggermente, arrivato in città, vedo ragazzi sfottere i vecchietti, che inermi subiscono le angherie dei più giovani.
Uomo, lo avrai fatto anche tu? Ti penti di averlo fatto o cinico dimentichi quello che hai fatto? 

Comprato un libro. Nella scrittura a volte, puoi leggere il sangue di chi ha scritto, le parole non dicono tutto, ma spiegano molto.
Gli occhi leggono quello che vogliono, ed il cuore a volte crede in qualcosa che gli dice la testa. Io preferisco la pancia. 
Sfoglio la pagina 21. Domani scriverò della pagina 21. 

Altra stazione, altro treno. Mi chiesero una volta di scrivere degli uomini. 
Io adoro le stazioni ferroviarie. I porti. Gli aeroporti. Le stazioni di servizio. Adoro questi posti dove vedi l’umanità in tutto il suo genere, e gli occhi vanno dove vogliono. I volti degli uomini. Sotto gli archi di pietra, non parlano la stessa lingua, ma si salutano in un’altra che non è la loro. Pacche gentili a rincuorare vite che non sono andate come si voleva, a dare una speranza per il domani, o fosse anche solo per un piccolo momento, come a dire “ehi puoi contare su di me!”. 
Gli uomini stanchi, alticci, sporchi, con gli occhi pieni di vita, di sofferenza, di scelte, di errori, di sospiri, di bestemmie, di rabbia, di voglia, di nulla. Che riempiono con schegge impazzite e scelte apparentemente irrazionali, anche se tutto ha una logica che si schiude solo col tempo. 
Gli uomini della stazioni, dei porti, degli aeroporti, hanno il dono del tempo. E dello spazio. Di decidere dove essere, di prendere ed andare, di lasciare alle spalle tutto ed affrontare col petto domani. 
….
Ho viaggiato tranquillamente in aereo. Fortuna ha voluto che fossi solo nella mia fila. 
Ho lanciato, furtivo, uno sguardo dietro quelle montagne. Il sole s’è fatto rosso. 
Poi è sparito sopra le nuvole. 
Rivedo la città. La mia città. 
Il posto dove sono entrato in questo mondo. 
E’ tutta grigia. Dall’alto è ancora più bella. 
Vorrei essere un uccello. 
Il mare è gonfissimo. Eppur calmo. Mi impressiona non poco. Sembra quasi possa rompere gli argini e mangiarsi la terra. 
Perdendo quota, vedo meglio i dettagli. Le luci. Immagino le persone nelle auto, nelle case, per strada. A tutti loro penso. 
Tocco terra. Riprendo peso. Mi ritrovo di nuovo tra aria, terra e mare. Sono a casa. 
La stanchezza la trovo nell’ultima fila. E’ al mio fianco e mi saluta. Ricambio. 
Corro. Ancora una volta corro. Corro veloce. Le gambe incerte. La corsa veloce. 
Trascino la valigia. E’ piena di roba. 
Il biglietto al volo. La corsa, il sorpasso di un altro che corre con me. 
Ho già la banconota da 5 euro in mano. So che dovrò correre. Senza fiato. 
Trecento metri. Corridoi sotto terra, illuminati e puliti. Non c’è nessuno. 
Corro veloce. I binari davanti, sento la voce annunciare il treno. 
E sento il treno arrivare. 
150 metri. 
Penso che potrei non farcela. 
L’altro non ha ancora girato. 
Non posso perdere questo treno. Dovrei aspettare. E non voglio aspettare. Voglio tornare a casa. 
Il biglietto passa sotto il led. Si aprono le porte di plexiglas. Il treno a 20 metri davanti a me. Escono i gradini. 
Mi fermo in prossimità della porta. Il led col trenino disegnato si illumina di verde e lampeggia. Lo spingo. 
La porta sbuffa e si apre. 
E si richiude di me. 
Subito riparte. 
Appena in tempo. 
L’altro rallenta la corsa ed impreca. E’ rimasto a terra. 
Io torno a casa. 

Mi passa l’ultimo flash. 
Davanti alla porta, appena il led si è illuminato ed ho spinto il pulsante, ho guardato a sinistra. 
Ho ripreso fiato e guardato il controllore, un ragazzo alto coi capelli scuri a spazzola. 
Mi ha sorriso. 
Ci siamo scambiati un’occhiata di complicità. 
Come a dire che ce l’ho fatta e lui è contento per me. 
Gli ho sorriso di rimando. 
Ha annuito con la testa. 

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il pesce di dicembre

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“lui”

Ed eccolo lì.
Tutto quello contro cui ho lottato.
Tutto quello da cui mi sono allontanato.
Tutto concentrato su una Vespa 50 special targata Lucca (vecchia targa!!!).
Una Vespa che è vecchia solo di facciata, in realtà è nuova (molto probabilmente tirata a lucido con migliaia di euro).
La guida un quasi-trentenne, finta barba incolta, la pelle color marrone. Senza sfumature, senza ombre. No un solo chiaro ed omogeneo colore marrone.
Pantaloncino blue della “Vattelapesca” da centocinquanta euro, camicia di Fred Perry a strisce sottili blu, celeste e bianco, mocassino Prada e cinta rosso-verde Gucci. Persol fumé e casco della MomoDesign.
Ovviamente borsa a tracollo 60x60x30 di pelle nera firmata da Prada.
Ho pensato ad un avvocato.
Si, ho guardato meglio, ed era un avvocato.
Ero sul mio scooter. L’umidità era di un tasso talmente elevato che sudavo anche dentro.
I capelli li sentivo come ingelatinati sotto il casco.
Il semaforo era di un rosso senza speranze.
L’asfalto era una specie di lago di caldo e smog, i treni partivano dalla stazione centrale alla mia sinistra facendo un casino incredibile essendo udibili in mezzo a tutto quel traffico.
L’avvocato lì. Sguardo trasognante dapprima, poi da uomo impegnato e stanco per il lavoro nell’ufficio con l’aria condizionata e le quindici fotocopie che il papà gli avrà fatto fare.
Dietro, sul sellone marrone, c’è una squinzia con canottina grigia e reggiseno bianco (si vedono le bretelline sotto la canottina) stessi occhiali del suo “lui” e bocca aperta con un po’ di saliva tipo schiuma da elettroshock. Stancamente si tiene vicina al suo “lui” ma sembra spossata dal caldo e dalle fatiche della giornata.
Quando è arrivato il verde mi sono sentito davvero sollevato.
Ho aperto il gas e ho passato agilmente tutti, compreso “lui”.

Mentre giravo per le vie del centro, il grande terrore.
A parte le variazioni cromatiche di pelli, abiti e motorini, ero circondato da repliche perfette di quel “lui”.
Decine. Decine e decine.
Con la variante “zagno”, “color zagno”, “arricchito”, “frocio”.

Ho pensato “questa è la mia città”.
Sono andato sul lungomare e mi sono fumato una sigaretta.
Ho visto i lampioni accendersi nel rosa e nel blu del cielo.
Il mare piatto.

Ho fatto pace con Bari.

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don Cesare

Ricordo bene.
Diceva sempre di essere stato chiamato per tanti anni “Don Cesare”.
Quando passeggiava su corso Cavour, a Bari, i commercianti sulla soglia dei locali e delle bancarelle lo salutavano ammirati.
E le donne lanciavano lui sguardi carichi di romanticismo.
Era finita la guerra da poco, ma per lui pareva non esserci stata.
L’aveva combattuta prestando servizio nel porto della città, tra bombardamenti e cannonate.
Era un uomo che ne aveva viste già tante sin da giovane.
Nonostante avesse superato gli ottanta anni, ricordo perfettamente le Gala, le sigarette che vantava di fumare dall’età di 9 anni.
Capelli bianchi perfettamente pettinati all’indietro, baffetto bianco, occhiali di metallo con lenti leggermente fumé, lo scollino, gli abiti pulitissimi, il Panama in tanti colori a seconda dell’abito, il fazzoletto nel taschino e la cipolla (l’aveva per davvero).
Era taciturno quando eravamo a tavola e in segno di disapprovazione per qualche marachella mia o di mia sorella, sgranava gli occhi come un pazzo, e noi subito ci calmavamo terrorizzati.
Era un uomo tutto d’un pezzo. Serio. Morigerato. Buono fino alla fesseria.
Onesto. Onestissimo, tant’è che me ne parlano ancora.
Austero e duro.  Ma che aveva un sorriso che gli illuminava gli occhi quando ci raccontava le vecchie storie.
Aveva avuto dieci figli, due morti prima di aver compiuto tre anni. Una moglie che aveva amato e che aveva perso, lasciando un buco che nessun’altra avrebbe potuto riempire.
Ricordo bene anche l’aneddoto del coltello sull’avambraccio o della forza del suo mignolo capace di non far spostare neanche un bisonte (metteva il dito sul pomo d’Adamo).

Un pomeriggio rimanemmo tutto il tempo a casa, lo vedevo una volta alla settimana.
Giocammo a carte e mi diede tutto l’affetto che poteva darti un nonno.
Lo ricordo bene. La sua voce. Il suo profumo.
Conservo ancora una serie di luci di natale fatta in seconda media. E’ bianca con le luci di tutti i colori.

Non ne ho molti di ricordi, ma quelli che ho li ricordo bene.
Troppo giovane io, troppo vecchio lui.
Stava scritto forse che doveva andare così.

Era il padre di mio padre.
Andato via tredici anni fa.
Lo ricordo bene, così.

Credo che ovunque si trovi ora, lo chiamino ancora “Don Cesare”.
E lui sicuramente, sorridendo, alzerà il cappello in tutta risposta.

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