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Posts Tagged ‘studio’

Bevve anche quella sera il veleno di saperla non sua in ogni momento in cui la pensava.
Se avesse avuto tutto l’oro della California, non sarebbe cambiato nulla.
Come i fiumi vanno in mare, e gli uomini si sopravvivono, lui era destinato a non averla.

Violini suonano.
I colori sono rosa ed azzurro.
Caldo di felpa davanti al mare di settembre, con jeans e piedi scalzi, seduti su sdraio inclinate sul mondo.
Col vento ad accarezzare l’anima.
E l’acqua nera, verde e bianca.
La freschezza di quella pelle. Liscia come i violini che suonano.

Ancora le mani.
Radici che cercano terra da invadere, facendosi strada inesorabilmente.

Non parlò.
Glissò.
Sentì però le vene pulsare. E sentì il suo respiro rincorrere le onde.
Fu naufragare.
Dolcissimo naufragare.
Brividi esplodevano in ogni dove.
Soccombere al pensiero, arrendersi, fu miele caldo da mangiare.

Immaginò le labbra.
Un tuffo voluttuoso.
Talmente proibito, da fregarsene di una seconda cacciata dall’Eden, ben conscio di quello che la prima aveva potuto comportare.
Era possibile bruciare inestinguibilmente?
Un fuoco freddo, di quelli soli.
La sua dannazione.
Il suo veleno.
Il suo sorriso.
Il suo punto di partenza.
E di arrivo.

Galleggia su un mare argentato da luna, stelle e fresco.
L’orizzonte è un pensiero, dove il mondo potrebbe andare giù a cascata..
se vedi bene, in certe notti, lo puoi ancora vedere sorridere mestamente, proprio lì, al confine tra terra e cielo.
Né da una parte, né dall’altra.

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Il caos fuori.
La pace dentro.
Il mondo è fatto di pelle ed ossa.
Io sono aria e fresco.

Corri corri corri corri corri corri.
Dammi la mano.
Via, di lì.
Su quel prato!!!
Saltiamo sulle nuvole…. cadiamo nel cielo.

TUONI!
solleviamoci sulle punte sopra quella pioggia..
(fruscio di abiti)

CADUTA VERSO BASSO !!!!!!!!
(mi sento piccolissimo)

ad un centimetro mi fermo…..
la pioggia ora è sulla mia schiena.
ancora un tuono….

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il RE

Seduto in una stanza d’ambra, sul suo trono vano.
Una lunga tavola imbandita di cose che non avrebbe potuto mangiare, con sedie che non avrebbero accolto nessuno, con calici secchi e candele consumate.
Un pianoforte insiste sul RE.
Ritmicamente.
Martellante e struggente, con l’impeto del maestrale di gennaio, scuro freddo argenteo.
Un Bacco ligneo sostiene stancamente una coppa con dell’uva all’interno.
Il treno a vapore nero che sputa nuvole bianche e dense.
Il re seduto che versa vino per terra.
Il RE  cresce per le stanze, spaccando tutto quello che trova, lasciando tutto intatto.
Ricorda ogni cosa, ricorda cosa era diventato, ricorda tutte le persone che aveva incrociato, ricorda tutte le sue terre, ricorda tutte le sue battaglie, le sue vittorie.
La corona pesa.
Non c’è nessuno a corte.
Drappeggi ed arazzi sventolano timorosi ad un vento incessante.
Lupi corrono per aria, ululando.
Il Bacco mantiene la sua compostezza.  Sembra che nulla possa scalfirlo, nessuno più può nulla. Nessuno può più dopo quelle martellate che lo hanno forgiato.
Il re lo guarda stancamente.
Ha perso la cognizione del tempo.
I lupi comandano.

Muove passi incerti verso un destino vertiginoso.
Il passato alle spalle, dietro quelle scie luminose e pulsanti.
Dove sarebbe andato a ficcarsi?
Cosa avrebbe deciso?
Il suo regno gli sarebbe sopravvissuto?

Una specchio spaccato restituisce un’ombra dell’uomo che fu.
La sua carne si era indurita, i suoi pensieri sfilacciati.
Aveva più rughe che ciccatrici e le ossa in certe giorni facevano male più di un colpo di mazza sull’armatura.
Perchè?
Il senso qual era?
Tutto era cambiato. Molti partiti.

Aveva avuto tutto.
Non aveva niente.
Voleva avere qualcosa?

Il senso qual era?
Le sensazioni stavano sparendo..
Le persone era diverse..
Lui era ancora lì.

Il RE incalzava.
D’improvviso i lupi sparirono.
Il Bacco era sempre lì.

“Ecco il re” – si disse.

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“Colpiscimi…che aspetti?”
L’urlo strappò anche il freddo di quel garage dimenticato da tutti.
“Ti ho detto di colpire!”
Questa volta era la penombra ad essere violata da quel suono così umano e così divino.
Lui gli stava davanti, saranno stati pressapoco dieci metri.
Il viso di Lui era tagliato a metà, obliquamente.
La parte del mento e della bocca erano evidenziati da una luce calda di emergenza posta chissà dove.
Il resto era solo ombra. E morte.
“Non hai capito un emerito cazzo…. falla finita comunque!” – continuava a gridare Will.

Le parole cavalcavano le onde infrangendosi con un eco contro i muri. Lui era trafitto con non-curanza dagli strali.
Will aveva la sensazione di volteggiare nel vuoto, nel nulla, guardando in sua direzione.
Che fosse uno spettro?
Lanciò un urlo. Di quelli che stringi i pugni e te li porti vicini al corpo e dopo affondi le unghie nella carne, tanto è la voglia di dire quello che sei, tanta è la paura.
La gola ne risentì di quella ulteriore sollecitazione, strozzando il fiato e facendo emettere un rantolo finale, tale da costringere Will a ricomporsi dalla posa contratta che aveva indossato.

Vide un ghigno, ghiacciato, sul volto di Lui.
Gli spilli avrebbero fatto meno male del sangue impazzito nelle sue braccia.
Ora era completamente immobile. Un buio illuminato su un ghigno a mezz’aria si poneva davanti alla sua strada.
Era perduto, si sentiva perduto….
Affrontarlo….era possibile?
Era tanto forte da poterlo fare?

Vedete, ci sono storie che non hanno né fine né inizio.
Storie che fanno a botte con il senso di raccontarle.
Storie inutili.
Non esistono storie inutili.

Siamo tutti parte di una stessa medaglia.
Chi vince, chi perde. Fiftyfifty. Nessuna raccomandazione, nessuna spintarella, fiftyfifty. Nessun trucco, nessun inganno. Fiftyfifty. Nessuna magia, nessuna bugia..fiftyfifty.

Chi vince, chi perde. Chi crede di vincere, chi crede di perdere.
Oh Pirro…. duoliti per la non-curanza degli omuncoli che t’hanno seguito…

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Verso le quattro del pomeriggio, in cima al marciapiede di tavole del cantiere della stazione, una donna in azzurro correva all’indietro, ridendo ed agitando un fazzoletto. Nello stesso tempo un negro con un impermeabile crema, scarpe gialle ed un cappello verde, girava l’angolo della strada fischiando. La donna, sempre indietreggiando, l’ha urtato, sotto una lanterna sospesa alla palizzata e che accendono alla sera. Ecco dunque, nello stesso tempo, questa palizzata che odora così forte di legno bagnato, la lanterna, e questa femminella bionda tra le braccia d’un negro, sotto un cielo di fuoco. Se fossimo stati in quattro o cinque immagino che avremmo notato l’urto, tutti quei colori teneri, quel bel mantello azzurro che pareva un piumino, l’impermeabile chiaro, i rossi quadrati della lanterna, ed avremmo riso dello stupore che appariva su quei due volti infantili.
Ma è raro che un solo abbia voglia di ridere: tutta quella scena per me s’è animata d’un significato fortissimo e selvaggio nel tempo stesso, ma puro. Poi s’è scomposta, non è rimasta che la lanterna, la palizzata ed il cielo: era ancora assai bella. Un’ora dopo la lanterna fu accesa, il vento soffiava, il cielo era nero: non ne restava più nulla.
Tutto ciò non è nuovissimo; queste emozioni inoffensive non le ho mai respinte, al contrario. Per provarle basta essere appena un pochino soli, quel tanto che basta per sbarazzarsi al momento buono della verosimiglianza. Ma io rimanevo vicino alla gente, alla superficie della solitudine, ben risoluto, in caso d’allarme, a rifugiarmi in seno ad essa: in fondo finora non sono stato che un dilettante.

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il mondo a rovescio

Una folla sterminata di gente, in preda a mistici e tribali momenti estatici.
Freneticamente i corpi si agitano, con il buio a comprimerli ancora un pò di più in quel posto stipato.
Corpi attaccati, corpi umidi, corpi caldi, corpi che vogliono dare, corpi che vogliono avere.
Corpi eccitati e tesi, con brividi e sussulti e mani mischiate ad altre mani.
Le distanze annullate, le difese spaccate.
Tutte le mura sono giù, macerie e polvere. I prati calpestati da cavalli famelici, che sputano aria fetida ed hanno gli occhi iniettati di fuoco e sangue.
Rimane solo la pelle a dividere.
Poi è solo un mescolare di fiato, carne e stelle.
G. aveva poggiato le labbra su un precipizio buio, che non prometteva ritorno.
Sentiva granchi farsi strada tra le scapole ed il bacino.
La camicia fresca di umido e notte completava il giro di brividi.
I granchi scappavano via nell’ombra di un Negroni sbagliato ed ora tutte le ossa, tutta la carne, tutti i nervi ed il sangue che dieci dita potevano avere, seminavano quel campo lasciato a marcire sotto i colpi di troppi tempi passati.
Il mondo era a rovescio.
Vedeva gli odori. Sentiva i colori. Toccava con gli occhi.
Tutto era mescolato, fluido, velato, nascosto, bugiardo.
Chiuse gli occhi sul buio.
Percepiva il vento carico di erba bagnata e toccò quel corpo caldo ed umido aggrappato al suo.
La musica riempiva gli spazi vuoti, le bocche, le orecchie.
Una rabbia lo prese alle spalle.
Sentiva che il sogno veniva a reclamare il suo bottino, ma resistette quel poco, quello spillo di tempo, necessario a prendere i due fianchi vibranti che aveva davanti e ricongiungere per un solo istante quello che un tempo doveva essere unito.

Il mondo era a rovescio.
La stanza sottosopra.
Un altro sogno, un altro incubo.
Ancora una volta, Elena.

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Una volta, ancora per molto tempo dopo che m’ebbe lasciato, pensavo ad Anny.
Adesso, non penso più a nessuno; non mi curo nemmeno di cercare parole. Tutto scorre in me più o meno svelto, non fisso nulla, lascio correre.
La maggior parte del tempo, in mancanza di parole cui attaccarsi, i miei pensieri restano nebulosi. Disegnano forme vaghe e piacevoli, e poi sprofondano, e subito li dimentico.
Questi giovani mi meravigliano: prendendo il caffè raccontano storie precise e verosimili. Se si domanda loro che cosa hanno fatto ieri non si turbano: vi mettono al corrente in due parole. Io , al loro posto, mi metterei a balbettare. E’ ben vero che da tanto tempo ormai non v’è più nessuno che si occupi di come impiego il mio tempo.
Quando uno vive solo non sa nemmeno più che cosa sia raccontare: il verosimile scompare insieme agli amici.
Anche gli avvenimenti, li si lascia scorrere; si vede sorgere bruscamente gente che parla e se ne va, ci s’ingolfa in storie senza capo né  coda: si sarebbe pessimi testimoni.

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E’ difficile avere un blog.
Difficile quando vuoi tenerlo aggiornato su cose utili.
Difficile quando vivi poco.

Si.
Sto vivendo poco.
Diciamo che siamo al limite della sopravvivenza.
Tant’è.

Oggi sono andato in un posto che ho frequentato qualche anno fa.
C’erano le solite segretarie che parevano invecchiate di dieci anni. C’erano frotte di nuovi ragazzini che mi fanno pensare a quanto più vecchio sia ora e quanto più scemo potevo sembrare da fuori.

Fuori un estraneo sole d’aprile ad illuminare l’Altare.
Dieci motociclisti su moto celestine scortavano una decina di auto enormi seguite da una Van con uomini incappucciati all’interno ed il bagagliaio posteriore aperto. Con orrore ho visto all’interno un mitragliatore su di un treppiedi puntato su chili e chili di carni inermi.

Ho preso lo scooter, direzione : OltreTevere.
Ho svoltato immediatamente prima di San Pietro e mi sono andato a rintanare sul Gianicolo. Tipo “Nido delle Aquile”.
Ho fumato due sigarette sul cornicione occidentale, quello che dà direttamente sulla basilica incastonata da Monte Mario.

All’inizio non c’era nessuno, tranne passanti inebetiti da quel bazar di storia e pietre che avevano sotto i piedi e gli occhi.
Guardavo sotto. Dalla strada vedevano una figura scura seduta su un cornicione 10 metri sopra di loro.
Loro mi guardavano come un tossico od un disperato.
Io mi vedevo come Damiel in “Il cielo sopra Berlino”.
Incorporeo. Astratto.
Un tutt’uno con la Camel Light che sputavo dalle narici.

Una famiglia americana stritola ciottoli sul selciato, tra palme e querce.
Uno dei figli sorride mangiando gommose, tenendo stretto il pacchetto delle caramelle appena tolto dalle mani della sorellina che già piange.
Il papà scatta quattro foto. Ha la maglietta della Dave Matthews Band di un blue sbiadito, come i capelli che vanno diradandosi.

Nel frattempo io sono ancora incorporeo.
Non mi sfiorano. Non li sfioro.
Li faccio però miei, scolpendoli qui, ora.

La nonna infastidita, il mendicante incazzato, la mamma arrapata.
Tutti lì a recitare le loro parti.
Io sono già via, come il fumo della mia Camel Light…..

Ho una vertigine improvvisa guardando giù. Metto i piedi per terra.
Tutta in faccia la verità in un istante.
Io sono incorporeo.
Come Damiel….

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“Le chiedo ancora scusa!” disse, quando la bella scese, pagò, gli lanciò un’occhiata e scosse il capo. Lui tentò nuovamente di sorridere. Lei si girò e si avviò verso il portone. Incantevole il gesto, con cui sospinse l’usciolo ritagliato nell’ampio battente. Lui rimase a guardarla, finchè l’anta si richiuse con un tonfo. Resto lì, gli occhi fissi al portone.

Qualche minuto dopo si accorse che aveva ancora in mano i soldi, così come li aveva ricevuti.

Ripartì, ma avanzò solo di pochi metri, si arrestò di nuovo e scese dalla macchina. Si soffermò un attimo, titubante, poi si avvicinò al portone ed entrò a sua volta.

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