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Posts Tagged ‘estratti dal’

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Esce di casa Zoe.
Il portone dà su un portico, in centro a Bologna.
Cammina veloce Zoe.
Guarda per terra, le pietre tagliate.
Gli archi riflettono la luce del meriggio
dopo la pioggia di maggio.
Cammina veloce Zoe.
Ride.
Sorride.
Alla vita, ai giorni, a quello che sarà.
Cammina veloce Zoe.
Tra le ombre dure degli uomini deboli
coi cappelli in testa e le mani in tasca.
Gli uomini dagli occhi a pesce,
squallidi come sono loro sanno essere.
Cammina veloce Zoe.
Quanti sguardi hai tenuto addosso Zoe?
Quanti ti hanno accoltellato alle spalle?
E quanti t’hanno voluta?
Quanto hai dovuto sopportare Zoe?
E come fai a sorridere così? Le tue piume dove sono?
La tua forza da dove nasce?
Cammina veloce Zoe.
Il vento l’accarezza,
la corazza è dura e resistente.
Tiene testa Zoe.
Perché lei è questa.
Sorrisi e lacrime,
occhi dolci,
sogni nascosti,
verità indicibili,
storie dense,
sangue fluido,
mani che toccano,
mani che pregano.
Prega Zoe. Prega di nascosto la sera nel letto, la luna nel cielo.
Sogna Zoe. Con gli occhi aperti, coi pensieri sciolti.
Vive Zoe. La vita sua. Non più quella degli altri.
Vorrei non dovesse tenere testa più al mondo intero.
Vorrei che riposasse i piedi.
Vorrei godesse della vita, dei sapori, dei rumori che ancora non conosce.

Quanto hai dovuto sopportare Zoe?
Zoe.. getterà la maschera. Finirà la recita.
Dovrà dire quel che vuole.
“Non avere stupide paure”.
Perderai, perderò, perderemo.
Senza cattiveria.
In pace.
Che la vita è questa.
E’ prendere una rete matrimoniale un giorno, in un centro commerciale.
E costruire castelli di carta.

Quanto hai dovuto sopportare Zoe?
Ti aggrappi agli oroscopi.
E le stelle ce le hai dentro. 
Che scoppiano. Un fuoco incontrollabile che tutto prende e tutto travolge.

Non ti conosco Zoe.
Forse in quello che dici c’è poco di quello che pensi.
Ma sento, che tu,
sola non sei.
Più.

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Una porta socchiusa.
Una striscia di luce illumina un letto disfatto.
L’aria sa di chiuso, di notte, di sonno.
Di riposo, di fiato, di attesa.

Il legno è bianco. Laccato.
Il pomello è d’ottone. Dorato.

I polpastrelli spingono lievi la superficie.
La striscia diventa un rettangolo.
Due occhi chiusi.

I miei battiti aumentano….

Terrazza sul mare.
Azulejas biancoblu e tavolini di ferro.
Ringhiera di ferro.
Sedie di ferro.
Cielo di ferro.
Occhi di ferro.

Mastico qualcosa, credo sia cibo.
Sono seduto davanti di nuovo a quegli occhi.
Questa volta aperti.

I miei battiti aumentano….

Aperta campagna.
Notte di ottobre.
Nuvole d’argento e letto di stelle.
Gli alberi ballano
le foglie cantano.
Il terreno è umido
le mie mani marroni.
Un volto di porcellana mi scruta
lo sento vicino
lo sento vicino alla guancia
sento un pezzo di carne e pelle,
un naso
sfiorarmi la barba
è freddo
e sputa rantoli di respiro
un affanno pauroso
un risucchio dalle viscere della terra,
mie,
sue,
di tutti gli animali.

I miei battiti aumentano…..

Il risveglio è sempre amaro, sporco e vuoto. Mi toglie qualcosa, mi riporta dove non voglio, dove non posso, dove non sono. Piombo.
Piombo ovunque.
Piombo per terra.
Piombo io.
Tutto è pesante, tutto è lento, tutto è snervante, tutto è soffocante.

I miei battiti aumentano…..
Il mio cuore è pesante, stretto,
stridula come i violini presi a calci
in giorni vuoti
che non rendono
quel motivo che ce la fa fare un po’ da queste parti.

Il mio cuore non regge.
Il mio cuore non è un gregge.
Il mio cuore è leggero.
Perché io sono quel che sono.
E non posso essere quel che sono.

Mi sento il piombo dentro.
I miei battiti aumentano…

 

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putrido

Ti sento.
Sfiorarmi i capelli.
Sfiorarmi le orecchie,
con la bocca.

La apri ma un silenzio torbido mi annebbia la vista.
Vorrei venderti il mio incantesimo,
vorrei stare calmo,
vorrei vedere bruciare il mondo,
stenderti su un materasso schifoso e lurido,
e darti i miei migliori colpi.

Un massaggio cardiaco
senza mani
fatto di lingua e sangue.

Mi emoziono
schifato
schivato
prima chiudevo gli occhi per non vedere
ora per vedere. Meglio.

Naufrago tra acquazzoni di ricordi
e schiaffi morali
avvolgimenti di mantelli
e girate di testa.

Mi guardi con gli occhi tuoi
che per me indossi.

C’è una linea,
un solco
una nuova Roma.

Siamo Romolo e Remo.

Una sfida di petto
di aria dentro
ed orgoglio nero
che ci esce dalle narici e dalla bocca
e ci sta deformando.

Siamo mostri
che hanno mangiato noi bambini increduli e puri
bestie senza senso
che a niente più si legano
che bugie si raccontano
e buttano dentro come se niente fosse.

Una guerra.
Si è una guerra.
Non dichiarata
subdola
interna
silenziosa
sottopelle
gocce di veleni
sputati.

Una guerra.
In cui moriremo solo noi.
O forse solo io.

Che lo scemo per non andare alla guerra
non lo fa.

Impreco.
Decido.
Voglio la parte brutta.
Voglio il palmo della mano
le paure
le dispersioni
l’inutile
la perdita.

Domani mi difenderò
ora attacco
il sole e l’aria
e poi sparirò
in un cielo grigio che si accartoccia
sotto i rintocchi di un orologio di ferro
e lascerò che la rabbia
cresca
e sfami il mio corpo
che niente vuole.
Tranne te.

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Il cuore batte.
Le vene sono piene.
E la gola pulsa.
La lingua una vipera bastarda e rapida.

Respiri.
Profondi.

La sospensione del mondo.
Le braccia sospese.
Gli sguardi sospesi.
Le bocche sospese.
I fiati sospesi.
Le mani sospese.

La ragione schizza via, scappa. Impaurita.
Impotente. Basita.

Sussurri.
Grida.
Cavallette scendono lungo le schiene.
E piove sangue.

Fottersene.
Fo.
Tter.
Se.
Ne.

“I need to love!”
“I need to love!”
“I need to love!”

“Come to me…. come to me…. come to me…..”

Pugni contro anime di vetro.
Solo.

Occhi socchiusi,
tempie bagnate,
polsi bagnati,
ombelichi bagnati,
luci soffuse e notte umida.

Nessuna età.
Nessuna distanza.
Nessuna ragione.
Nessun limite.
Nessun no.

Un qualcosa che parte da dentro,
che fa un giro enorme,
che ti ritorna dentro,
che ti fa male,
che ti tormenta,
che ti nutre,
che ti copre,
che ti scopa,
che ti fa dipendere,
che si impossessa,
che vuole tutto,
che gli apri le gambe,
che te le fai aprire,
che non me ne fotte un cazzo……..

E prendimi.
Dammi tormento.
Dammi tutto quello che vuoi.
Ma dammelo.

Fatti tutti i giri che vuoi,
sputa tutto quello che vuoi.
Siamo preda e predatore.
Siamo ciò che ci uccide.
E ci tiene in vita.
Siamo quelli che vogliono essere stelle,
e gli dei ci invidiano.
Siamo il centro
che nessuna forza vince.
Siamo la rivoluzione.
Che a tutto diamo fiamme…

E tu… tu mi sfiori dentro con le tue dita,
con i tuoi denti.

E carbone ed acciaio,
stelle e polvere,
aprimi il tuo mondo,
fammi cadere nell’Eden,
fammi rinascere,
fammi battere un nuovo cuore.
D’odio per la grandezza che provo,
per l’ingiustizia di così tanto,
di essere indegno,
di tutto potere,
di niente volere.

Un nuovo cuore.

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Il crepuscolo arrotonda gentilmente gli angoli bruschi delle strade. L’oscurità incombe sulla fumigante città di asfalto; ottunde le inquadrature delle finestre, i manifesti, i camini, i serbatoi, i ventilatori, le scale di sicurezza, le modanature, le decorazioni, le scanalature, gli occhi, le mani, le cravatte; riduce tutto a masse blu, a blocchi neri. Sotto il rullo che comprime più forte, sempre più forte, sprizza dalle finestre la luce. La pressione della notte strizza latte luminoso dai lampioni ad arco, spreme i blocchi scuri delle case fino al farne sfilare la luce rossa gialla verde nella strada rimbombante di passi. Tutto l’asfalto secerne luce. Dalle insegne luminose sui tetti erompe luce, luce che turbina vertiginosamente per le vie, luce che colora rutilanti tonnellate di cielo.

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La pigna

Una pigna appesa al ramo. 

Le pigne fissano quel punto che è giù, sotto di loro.
Da quando nascono.
Lo fissano sempre, senza perderlo di vista neanche per un minuto. 
L’albero le lascia andare, quando pesano, quando sono grandi.
Le lascia al loro destino. 
Alle loro voglie.
Al richiamo di quella terra sporca e bagnata sotto di loro,
a quel momento in cui sono angeli di legno che scendono dritti da cieli di ferro battuto
giù verso la terra,
angeli di legno caduti in terra,
un bacio di un attimo,
un attimo prima della fine,
che tutto in un attimo
può esserci un’intera vita.

Io sono una pigna.

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Eléna

Premeva contro la parete fatta di pietre irregolari, aguzze, lisce.
“Sbrigati” – sembrò dire, con un filo di voce così fragile, così vibrante.
Thiago era imbambolato.
Non se lo aspettava.
Quell’essere buffo, che lo faceva morire dal ridere, era diventato una pantera dagli artigli molto pericolosi.
Ed era lì. Che lo braccava.

Una lotta di braccia e mani, di camicie sfilate dai jeans e da mani che come valanghe ricadevano sulla pelle.
Con vigore più forte, con voglia implacabile.

“Sbrigati” .
Thiago era stordito.
Non vedeva più nulla, l’orizzonte era una linea dimenticata da qualche parte, ed Elena era ad un soffio dalle sue labbra.
Bramavano, l’uno dell’altra.
Toccandosi in punta di lingua e di dita. Pizzicando corde bianche.
Un graffio su una A ed una I intrecciate dietro il collo di lei.
Che persa, affoga in un mare cobalto
tra spuma bianca e gabbiani in festa.

Il mondo intorno, un mondo blue ed elettrico,
fatto di alcool e notte densa
scivola giù, come una tenda,
come un vestito.
Stramazza di netto come un albero, in un sol colpo.

Si tengono a vista, combattono e si scontrano,
Elena e Thiago.

Trovano un divano.
Un regno di voglie intrecciate a desideri insani,
di cosce pronte a sforzi inumani
di schiene arcate,
di sguardi neri,
di denti che non sorridono
e fiati che si annidano nei pensieri delle notti che verranno,
pensando a cose così basse eppur capaci di far andare così in alto.

Lo tiene stretto Thiago,
che non vuole sentirsi sola,
almeno quella notte,
almeno quell’ora.

Lo vuole sentire Thiago,
perché la scusa che si muore
regga abbastanza per nascondere
la paura.

“Nati per morire.
Con la vita che è un brivido,
che vola via…..”

“Cosa?” – chiede Thiago.

Si meraviglia di quel che ha detto,
si sposta una ciocca ebano dagli occhi neri,
spalancati e sorpresi come da un colpo al fianco.

Apre la bocca,
e lo bacia come se fosse acqua nel deserto,
socchiude gli occhi,
appoggia la testa sul petto,
il suo cuore batte e gli dice che la vita c’è
e quella notte sola non sarà.

“Niente..non volevo dirti niente, sciocco”.

“Stammi vicino e tienimi stretta..”.
Avrebbe voluto gridarglielo.
Senza saperne il perché.
E senza saperne il perché,
non glielo disse.

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dreamin’ of you

Era un inseguirsi di ombre quella notte.
Era un casino di cani che si sbranavano.
Ed io che mi prendevo tutto di te.
Entrando nella tua bocca.
Scendendo nel paradiso.
T’ho picchiato.
Come piaceva a te.
E più menavo, più volevi.
Da che pozzo non so.
E gridavi : “Dammi tutto!”
Li sentivi i miei graffi.
Li volevi tutti quei morsi.

Fu così che ci incontrammo.
Per caso.
Il migliore dei modi.
Nel migliore dei mondi.
Quello dei sogni.

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Un giorno moriremo, ma il canto viene prima.
Nonna tu nei cortili dell’estate, già alzata all’alba,
sola ad aprire imposte e ricevere il sole,
accompagnando la febbre dei miei ultimi sogni con lo strofinio appena udibile dei tuoi pasi,
entrando dalla parte del giorno a restituirmi il mondo nella fragranza del caffellatte.
Non dimentico nulla, io crebbi sulla sponda della tua vestaglia e dei tuoi scialletti,
del tuo gusto per il lilla che ti fa come una cenere di colombe fra i capelli e le guance,
e sento un’altra volta il soave andare delle pantofole che ti portai dal Cile.
E sto vedendo la lunghissima treccia che tu lasci libera
quando ti alzi, come un ricordo dei tuoi anni di ragazza.
Tu non lo sai, nonna, però in te finisce il tempo, la successione dei giorni e delle spiagge, delle aule e dei pianti, dell’amore nei suoi mille specchi, dell’uomo e del bambino che riconciliano le loro distanze nei tuoi occhi, oh paese della pace.
Ti vedo e sono piccolo e sono proprio io, e niente impedisce che il piccolo e l’uomo ti diano lo stesso bacio e si rifugino nel tuo abbraccio. Questi capelli che tu accarezzi e che pettinasti per la prima volta, questa fronte che stai baciando e che lavasti dal sudore della nascita, queste mani che vanno per il mondo palpando i suoi bei vuoti, e che guidasti nel primo incontro con il cucchiaio e la palla,
tornano al posto del riposo, e non se ne vanno, nonna,
sebbene io viva alzato verso tante rotte, e non se ne vanno, nonna.

La nonna spunta con il giorno a visitare l’orto e le galline
spartisce l’acqua e il mais, ammira i pomodori e i loro progressi,
e gode del racemo che si inerpica, del lampadario delle prugne regine claudie,
e va per le profondità della casa distribuendo l’ordine.
A volte mi alzo, l’accompagno e, associato ai suoi riti,
do da mangiare agli uccelli e irrigo le veccie, sento il tremito dell’acqua sui rampicanti che bucano i muri e che la ricevono crepitando e si riempiono
di scintille.
Ho dieci anni, vivo insieme ai bruchi e alle anatre, sono tenero e crudele,
ammazzo e proteggo, ordino come un re le cose del mio regno,
e sopra di me sta la nonna, le arrivo già all’altezza delle spalle, sulla punta dei piedi arrivo a baciarla,
e i nostri occhi si scoprono nell’allegria comune dei polli nati durante la notte.

Il nostro giardino durò quanto l’infanzia. Né tu né io lo dimenticheremo,nonnina.
Non dimenticheremo il sapore delle pesche bianche,
delle barbabietole, delle zucche incendiate.
Fu il tempo del riso al latte coperto di cannella, del piacere delle pannocchie sulla tavola tesa sotto i pergolati.
Stai nella cucina in penombra, con i glicini alla porta,
e curi le cadenze delle bacinelle di gelatina,
le marmellate invernali che ordinerai nella credenza.
Io sto lì, con Giulio Verne e una botta al ginocchio,
felice, guardandoti, sicuro che niente potrà mai accadermi, che in mezzo al mare o all’assalto del polo con il capitano Hatteras, o appeso al cielo con Michel Ardan,
tu mi tieni con te, vicino al fornello da cui l’aroma
inzuccherato cresce come un soave vulcano dipinto a lapis.
Un giorno moriremo, ma prima viene il canto.
E non solo ieri, nonna. A ogni svolta stai lì, piccola
sotto l’architrave, imbacuccata nella tua vecchiezza
senza macchia, nella tua piccola salute,
e ogni volta che mi trae da porte e passi e uomini,
io so che tu stai lì. E che il tuo amore senza altra causa che se stesso
ci sostiene nella notte e ci restituisce l’alba dell’incontro,
e il tempo gira la testa e ci accetta interi,
con il bambino che piange tra le tue braccia,
con il viaggiatore che si lava della polvere nel tuo sorriso,
con la giovane nonna che corre in mezzo alla neve per rallegrare il nipote,
con questa vecchietta che sostiene sulla soglia la lampada del benvenuto.
E il primo che muoia sappia che niente muore
e che la perfezione regnò nel suo giorno.

 

Julio Cortazar

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1995.
Divano a tinte chiare sul blue, celeste, indaco, verdino e bianco con tratti floreali e curve.
Io su quel divano.
Due fette di pancarré appiccicate da uno strato densissimo di nutella.
Due bottigliette di succo di frutta alla pera poggiati ai piedi.
I miei occhi fissi su un Telefunken nero.
MTV.
Il mio pomeriggio era incuneato su quell’appuntamento alle 17.50 su TeleMonteCarlo, canale 9.
Aspettavo ogni giorno quel momento, subito dopo aver finito i compiti, facevo merenda, vedevo i cartoni, ed aspettavo le 17.50. Incurante di tutto, del mondo, dei compagni di scuola, della prima ragazzina che mi faceva sognare la notte, di mio padre a spaccarsi schiena e palle al lavoro, di mia madre che ansiosa voleva che crescessi sano bello e forte.
A me fregava niente.
Ero innocente.
MTV.
Zac, canale 9.
Una ragazza “colorata di marrone” parlava una lingua che non conoscevo ma che pian piano imparavo a conoscere, almeno quando chiamava gli artisti, o pronunciava “video” in quel modo così strano: “vereo”. La ragazza era Eden Harel, il programma era la striscia quotidiana dei migliori e più quotati video in Europa: Top Five.

Se ci ripenso a quanto cazzo ci tenevo a quel programma, riesco per ricordo a sentirmi come allora..
Lì ho iniziato a sentire musica per i fatti miei, ad ascoltare il mondo, a pensare all’Europa, alla meraviglia di pensare che in quel preciso momento un portoghese, un inglese, od uno svedese potevano essere sintonizzati davanti al proprio televisore e vedere esattamente quello che vedevo io.
Era qualcosa che mi mandava fuori di testa per la gioia.

Cazzo io che vedevo le stesse cose di una persona di un altro paese!
Era il 1995 baby.
Internet non esisteva ed i PC erano dei miseri 386i e si giocava con i GameBoy.

Il mio mondo  lì.
Se mi sforzo ricordo di aver visto qualche volta anche un tipo con i dreads biondi, pensando a che cacchio di capelli c’aveva il ragazzo che parlava inglese. Non potevo sapere che era italiano e che si chiamava Marco Maccarini…

In ogni caso aspettavo le cinque canzoni, pronto a giudicare quale posizione, quale andamento, quale permanenza, pronto a mimare le batterie e gli assoli. Sempre su quel divano. Sempre innocente.
Non esisteva niente.
Ricordo molte canzoni, molte pietre miliari, tanta felicità.
E poi ricordo due canzoni in particolar modo.
La prima, di cui ancora oggi non conservo un bel ricordo è quella di Robert Miles, Children. L’ho odiata per essere stata mesi al primo posto, una canzone che aborro davvero.
La seconda è quella per cui sto scrivendo questo post.
“These Days” dei Bon Jovi.

Mi innamorai della canzone, del ritmo, del video: di quel mondo enorme ed ignoto ma alla portata della mia mano, conscio che stava cambiando tutto….

I was walking around, just a face in the crowd 
Trying to keep myself out of the rain 
Saw a vagabond king wear a styrofoam crown 
Wondered if I might end up the same 
There’s a man out on the corner 
Singing old songs about change 
Everybody’s got their cross to bear, these days 

She came looking for some shelter with a suitcase full of dreams 
To a motel room on the boulevard 
I guess she’s trying to be James Dean 
She’s seen all the disciples and all the “wanna be’s” 
No one wants to be themselves these days 
Still there’s nothing to hold on to but these days 

These days – the stars hang out of reach 
These days – there ain’t a ladder on the streets 
Oh no no
These days – are fast, nothing lasts, in this graceless age 
There ain’t nobody left but us these days 

Jimmy shoes busted both his legs, trying to learn to fly 
From a second story window, he just jumped and closed his eyes 
His momma said he was crazy – he said momma “I’ve got to try” 
Don’t you know that all my heroes died 
And I guess I’d rather die than fade away 

Yeah
These days – the stars hang out of reach, yeah 
These days – there ain’t a ladder on the streets
Oh no no 
These days are fast, nothing lasts, it’s a graceless age 
Even innocence has caught the midnight train 
There ain’t nobody left but us these days 

I know Rome’s still burning 
Though the times have changed 
This world keeps turning round and round and round and round 
These days ….

 

Una canzone cupa, di cui non sapevo il significato.
In cui ci sguazzo.
La mia Roma brucia e suono svogliato la mia cetra.
E penso che i Bon Jovi oggi mi fanno davvero schifo.
La perdita dell’innocenza.

Tranne “These Days” ovviamente

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