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Archive for novembre 2011

Scura quanto una rosa, imprendibile quanto la sabbia
ti sento tornare in alto, col tuo pungiglione puntato sul mio cuore
ti sento ridere e l’inferno può aspettare
su lapidi dimenticate che hai già pianto

Addosso come edera sui miei nervi
e nei miei occhi
tagli l’anima peggio dell’angoscia
meglio dei bei giorni andati

Ma va tutto bene
quando stai male
e senti la pioggia scendere
va tutto bene
quando trovi la tua strada
e la perdi
va tutto bene
quando nel mio mondo grigio
le tue grazie le vedo in tutta la loro bellezza
e so che sbocceranno un giorno
in una pioggia bagnata dal sole

Occhi profondi più degli oceani
leggeri come piume
aperti su mattine tormentate
da notti tormentate

ma va tutto bene…
va tutto bene..

so bene di cosa sei capace
ed un giorno lo saprai anche tu
un giorno che non è oggi
ma che prima o poi nascerà

someday…..

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Per un attimo si guardarono negli occhi. Dex tornò a sdraiarsi, dopo un po’ Emma fece lo stesso ed ebbe un sobbalzo quando si accorse che le aveva fatto scivolare un braccio intorno alle spalle. Ci fu un attimo di imbarazzo ed impaccio da una parte e dall’altra. Infine Emma si girò sul fianco e si rannicchiò verso di lui. Stringendola forte, Dex le parlò fra i capelli.
“Sai che cosa mi sfugge? C’è tutta questa gente che ti ripete in continuazione che sei intelligente, spiritosa e talentuosa, ed è da anni che anch’io te lo dico un giorno sì e l’altro pure. Allora perché non ci credi? Perché la gente dovrebbe parlare così di te? Credi che sia una congiura… che la gente faccia comunella di nascosto per farti i complimenti?”
Emma schiacciò la testa contro la sua spalla per farlo tacere o perché aveva paura di scoppiare a piangere.
“Sei gentile, ma ora devo andare”.
“Aspetta, rimani ancora un po’. Ci scoliamo un’altra bottiglia”.
“Naomi ti starà aspettando da qualche parte con la boccuccia piena zeppa di droghe, come una specie di criceto tossico”. Emma gonfiò le guance, Dexter rise e lei si sentì un po’ meglio.
Restarono lì ancora per un po’, poi raggiunsero un pub che vendeva alcolici da asporto e risalirono la collina per ammirare il tramonto sulla città, bere vino ed ingozzarsi di patatine fritte. Dallo zoo di Regents Park arrivavano curiosi strilli di animali ed infine intorno a loro si fece il vuoto.
“Devo andare a casa” disse Emma, e si alzò in piedi stordita.
“Se vuoi, puoi fermarti da me”.
Emma pensò al viaggio di ritorno, la Northern Line, il piano di sopra nell’autobus N38, la lunga camminata piena di pericoli fino all’appartamento che inspiegabilmente puzzava sempre di cipolle fritte. Una volta a casa, probabilmente avrebbe trovato il riscaldamento centralizzato acceso e Tilly Killick in vestaglia incollata al termosifone come un geco, a mangiare pesto direttamente dal barattolo. Sul formaggio in frigo ci sarebbero stati i segni dei suoi denti ed alla TV qualche programma su trentenni, e lei non aveva nessuna voglia di rimettere piede a casa.
“Ti presto uno spazzolino da denti” fece Dexter, come se le avesse letto nella mente. “Dormi sul divano, ok?”
Emma s’immaginò una notte passata sulla pelle nera e cigolante del divano letto di Dexter, con la testa nel pallone, mezza sbronza, prima di decidere che la vita era già abbastanza complicata. Fece un fioretto, una di quelle decisioni ferree che ormai prendeva quasi ogni giorno. Niente più notti fuori casa, basta poesia, basta perdere tempo. E’ venuto il momento di mettere ordine nella tua vita.
Devi ripartire da zero.

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L’alba è alle spalle, incombe come il fragore di un tuono. L’orizzonte prende vita, i flutti del mare nero si colorano di rosa e la schiuma è bianca come la luna mozzata della notte appena morta.

“Signore, non si contano più i giorni dacché siamo accampati qui”
In silenzio, il signore fissa il mare in festa con schizzi, spruzzi, sbuffi e vortici.

“Cosa aspettiamo signore? Gli uomini sono nervosi, si fanno domande, ed inizio a farmele anche io, vostro umile servitore”
Alcuni gabbiani sfrecciano davanti agli occhi del signore di Richard.
Nessuna risposta, nemmeno un cenno della testa.
Richard rimane alle sue spalle, senza aggiungere altro; si gira e vede gli intendenti chinare il capo, altri scuoterlo in segno di disapprovazione.

Con rispetto, sire…..” e così dicendo si inginocchia prima di allontanarsi.
Una folata di vento scuote il ciuffo e nel crescere di potenza, smuove il mantello di lana, rumorosamente.
Il vento soffia forte ora, da sud, da terra, da quella terra abitata dagli uomini del Nord da dieci generazioni oramai.

Richard, mio fedele servo…” non si gira, il mantello si muove per il vento, aderendo al corpo imponente, possente, con spalle larghe e gambe forti, i capelli lunghi e neri impazziti.
Il mare cambia colore, cambia forma, pare respirare ora, quasi ansimare, è eccitato dalla presenza di quell’uomo sulla sua sponda. Ancora un passaggio di gabbiani. Le nuvole corrono veloci e si dissolvono subito dopo la costa; l’orizzonte ora ha la sua linea, cielo e terra sono di nuovo separati, il sole è caldo nonostante la fine di settembre.

Avete aspettato, voi tutti, per lunghi giorni, qui, radunati tutti voi, su questa scarna costa, senza sapere, senza sentire nulla, senza vedere niente. Con una sola promessa: l’azione! Ebbene, Richard….
Si gira ora, la luce sul viso carezza gli occhi marroni come la terra che calpesta e la barba folta e dura come il suo sguardo, che non esita neanche davanti al sole.

….ebbene Richard, e voi fratelli miei (alza la voce), tutti voi, uomini ardimentosi, uomini valorosi, giganti in terra da scuoterla ad ogni vostro passo, a voi, prometto l’azione che volevate. A voi ,oggi, io, Guglielmo II , settimo Duca di Normandia, vi dico di partire, che il vento è cambiato, il mare è nostro. Volgete con me lo sguardo oltre il mare, verso la terra degli Angli e dei Sassoni, a riparare il torto subito ed a calpestare la terra dell’immortalità. Navigate con me, cavalcate con me, verso l’Anglia, verso la vittoria, verso la gloria imperitura. Nessuno dopo di noi oserà tanto, nessuno dopo di noi potrà guardarci negli occhi, nessuno dopo di noi potrà dimenticarci”.

Gli uomini ora tremano all’unisono. Di paura. Di eccitazione. Il vento mulina tra gli ottomila radunati lì, tra gli spazi vuoti incastonati tra pelle, armature, scudi, spade, archi e fiati. Il sole schizza in alto. Spalancano gli occhi sulla figura illuminata del loro signore, di Guglielmo, stagliata nitidamente sulla roccia in bilico sul mare. Il duca sembra anche più alto di quanto già non lo sia.
Ora impugna l’elsa della sua spada, e stende il braccio verso il cielo.

Dex Aie!!

L’urlo di Guglielmo è un ruggito, che tutto scuote, da dentro, nel profondo delle carni e degli animi di quegli animi.
Il brusio diventa frastuono. La risposta non si fa attendere.
“Dex Aie!! Dex Aie!! Dex Aie!!
Il grido di guerra riecheggia per tutta la foce della Somme, risale il fiume e fa volare gli uccelli annidati ancora negli alberi.
E’ un tuono nel cielo sereno.

“Fratelli, Dio ci aiuta. Con me, ora!
Nuvole di terra e polvere si alzano ora da Dives-sur-Mer.

“Signore, nella Terra degli Angli?” 
“Si Richard, è lì che si compierà il mio destino. Nella Terra degli Angli!”
“Sire, ma….. nessuno prima..”
“Si Richard, nessuno prima. Nessuno prima di cui si ricordi il nome. Solo uno passò mille anni fa. Ora passeremo noi, e dopo di noi mai nessuno passerà. Facciamo questo perché noi lo vogliamo”
“Mi sento così piccolo, signore… così inutile”
Guglielmo guardò dritto negli occhi il cavaliere.
“Mi chiamano “il Bastardo” da quando sono nato, nonostante nelle mie vene scorra il sangue di Roberto il Magnifico, mio padre”.
Abbassa gli occhi Richard, quasi si vergognasse per quell’onta subita dal suo signore.
“Mia madre era figlia di un conciatore, e si innamorò del suo signore. Hanno cercato di uccidermi innumerevoli volte; ho dormito solo quattro volte per due notti di fila nello stesso posto ed hanno ucciso i miei quattro tutori, arrivando più volte sino a me”.
Sposta la maglia di ferro, lasciando intravedere profonde cicatrici che solcano il petto.
Il suo mento ora è di granito. E Richard abbassa ancor di più la testa, quasi fosse inginocchiato.
“Eppure, io sono qui Richard. Io sono qui, su questa terra. La mia terra. Su cui ho versato il mio sangue, quello dei miei fratelli e quello dei miei nemici. Non mi hanno spezzato, non mi hanno piegato, non mi hanno scalfito l’animo. Ho vissuto nell’insicurezza e nella paura per troppo tempo, a lungo. Ho capito il senso di tutto questo. Ho capito che il mio nome è legato a questo mare, a quella terra. Sosterrò il peso di questa impresa, conquisterò l’Anglia, riparerò al torto subito. Perché nessuno più oserà mettersi contro di me, contro la mia terra, contro i miei fratelli”.
Il prode Richard guarda assorto il suo signore allontanarsi verso l’esercito in fase di imbarco sulle scialuppe.
Cosa lo attende? Vivrà abbastanza per vedere il sogno di Guglielmo II, settimo duca di Normandia, figlio di Roberto il Magnifico e Harleva di Falaise, realizzarsi?

Le domande così come si pongono così scompaiono.
Ecco il palco della storia che si agghinda di figuri e di menestrelli, di cantori ed urlatori, tutti col proprio copione, il destino, a guadagnarsi il passaggio ambito.

Guglielmo salpa quella mattina stessa, con destinazione l’Anglia.
Guglielmo.
Il Conquistatore.

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Giorni interi, solo deserto, solo caldo, solo miraggi.
Di donne che hanno popolato queste terre, con aquiloni rossi,
con scuse, canzoni, sogni e sognatori.
Brancolando nel buio, senza una direzione,
sai solo che il sole sorge ad est,
che prendi botte e dai botte,
che cadi per terra, con la fottuta convinzione che devi rialzarti.
Che puoi rialzarti.
A prescindere.
Calpesto sabbia bollente,
passo per rovine di città che furono
e mai più saranno.
E penso che loro sono cadute,
e non si sono rialzate.
Ecco la differenza tra il giovane ed il vecchio!
Fa male il petto.
Saranno le Camel od il cuore?
Quanti battiti ha saltato ormai? Non li conto di certo.
Stringo forte le mani, nelle notti senza lune,
senza la schiuma del mare,
senza la leggerezza delle piume dei gabbiani
che gridano di gioia.
Non odo campane qui,
in questo deserto senza tempo, senza odori,
con le stelle che sembrano pure più lontane,
indifferenti,
più del solito.
Non c’è pioggia in questo deserto,
niente acqua che lavi via lo sporco,
e che scivoli sull’olio o si confonda con la neve.
Non ci sono risvegli,
dormiveglia tangibile di una condizione drogata
in cui sogni ed incubi non esistono, o forse si congiungono
nei loro opposti trafiggendomi più e più volte
con sadico piacimento.
Oh… vi divertite a guardare questo umile mercante di emozioni?
Con le vesti strappate,
con la lanterna accesa per cercare,
trovare quello che il buio ha sapientemente
imparato in millenni di vita. E di morte.
Cammino, toccando le ginocchia, sfregando le cosce
arrossate ed irritate.
Io non lo sono,
nonostante il mondo sulle spalle,
quel mondo che ho visto,
che ho toccato
in cui mi ci sono perso ora.
In questo deserto, di vetro e sabbia,
con fate morgane che cattive sogghignano
ma si mostrano senza parsimonia,
con insistenza, con slanci ardimentosi.
Quanti occhi avranno seccato?
In questo deserto non ci sono persone che conosci,
ci sono le loro facce oscure, le loro facce nascoste,
le fiamme non si bagnano,
le ombre sono dure e lasciano impronte.
Qui tutto è denso,
lo stesso vento sposta le montagne,
e come pennello le disegna nell’arco di una luna.
La gola è secca,
bolle di sapone,
miraggi.
Niente si muove
e tutto è in guerra.
I centimetri sono chilometri
e le ore, secondi.
Tutto è più veloce, tutto è in discesa verso una sola meta:
la fine.
Mi avevano detto che la strada era questa.
Mi sono perso?
Mi hanno fregato?
Nel cielo bianco tiro dritto
non troverò cartelli,
non troverò benvenuti,
ma da qualche parte devo ficcarmi.
Sono solo un umile mercante di emozioni,
le compro e le vendo
ma in questo deserto sono una goccia d’acqua
fortunata ma destinata a morire.
La Terra Promessa.
Io è lì che vado.
E se ci arrivo,
mangerò chicchi di uva e berrò sidro di mele,
precipitando su fiori di pesco lattescenti
e terra color ruggine.
La Terra Promessa,
è lì che vado.
Almeno credo.

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Riga al lato che finisce su di un occhio.
Viso liscio, trench panna.
Il mondo è in bianco e nero, le tue labbra rosse, come il fuoco, come il sangue, come il cuore.
Sanno di sale, sono di sale,
che a piacimento potresti buttare su tutte le mie ferite,
le più profonde, le più nascoste, le più pericolose.
Ti lancio il mio abbraccio mortale,
e cadiamo come petali al vento,
verso un pavimento fatto di caffè e gigli.
E’ una giravolta che stordisce, senza senso
senza direzione, senza strada,
senza inizio.
Senza una fine.
Una linea retta, fatta di attimi che non tornano,
che mai saranno gli stessi,
che mi faranno chiedere sempre “cosa c’è dopo?”.
Una linea retta che inizia non so dove e di cui
non vedo fine.
Smisurata, infinita, impossibile.
Cadiamo ancora, come petali al vento.
Così piccoli, così fragili, così inutile tutto questo.
Eppur non riuscire a vedere niente altro che noi.
Soffia il vento, ci separa il vento, ci sballotta il vento,
ma cadiamo in quel letto nero e glicine
come magneti col ferro,
come comete col sole,
come le mele che cadono dagli alberi
e solo giù vanno, perché la terra che le guarda nascere e crescere
senza nulla poter fare,
vuole toccarle e farle morire
per farne nascere ancora di più belle.
Siamo petali al vento,
non possiamo fare niente,
siamo destinati a cadere,
in un vortice senza ritorno.
Ti prendo dal braccio,
lo faccio andare su
e ti giro dai fianchi,
giri su di te
e le tue labbra di sale sono rosse.
A porcelain angel
a rouge croix.
Tutta la terra,
tutto il vento,
tutto il caffè,
tutti i gigli,
tutti ora ti guardiamo,
bella come nessuno
dura come un’eco solitario.
Stacchi le mani,
stacchi gli occhi da me,
ti perdi nel vento,
ti lancio il mio eco,
che scansi accuratamente.
Tesserò la ragnatela
che spegnerai come un bricco di luce.
Attaccherò in forze,
forze che non conosco,
che tu mi darai;
e ti farai trovare in posti che non immagino,
mi chiamerai, mi vorrai lì.
Con te.
Perché siamo petali,
petali al vento.
Ed io, con tutti gli occhi del mondo
non ho mai visto un petalo abbandonarsi a se stesso.

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storpiando LL

Ti vengo a prendere perchè non ho scelta
perchè so vivere una sera per volta
io ti vengo a prendere perchè dove andiamo….
….non importa

Ti voglio credere per come cammini
per le promesse che comunque mantieni
io ti voglio credere per quello che chiedi
e che non chiedi

è una città piuttosto dura
dipende quanto puoi pagare
e tu che sai quali porte aprire
sembri sapere come vada a finire

ti voglio credere perchè tu ci credi
perchè sei dolce tanto quanto sei dura 
io ti voglio credere perchè sei sicura di qualcosa 
ti vengo a prendere mi aspetto di tutto
e non dev’essere per forza perfetto
io ti vengo a prendere perchè ciò che è fatto
adesso è fatto

E la città ci fa passare
ha altri problemi a cui pensare
e tu che sai bene dove andare
devi sapere come va a finire

c’è qualcosa fra te e la vita
che non ho ancora conosciuto
mentre ridi così facilmente
c’è qualcosa fra te e la vita
chissà quanto vi conoscete
mentre ridi….mentre ridi

e la città risplende ancora
anche con poche luci fuori
e tu che non cambi direzione
sai di sicuro come va a finire

io potrei anche pensare che il meglio debba ancora venire,
ma va bene lo stesso……

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Arrivo alla stazione di Santa Novella alle otto di sera. I treni sferragliano di continuo, con gente che sale e gente che scende.
Trolley, zaini, valigie, borse, cellulari, giornali, panini, bottiglie, sigarette.
Quanti passi vengono percorsi in una stazione? Quante persone ci sono nello stesso momento in una stazione?
Quante ne vediamo? Quante ci vedono?
Marmi e scritte di quarant’anni fa mi si parano davanti.
La stazione è vecchia, specie l’atrio della biglietteria con le sue porte in ferro nero. Ma luccica sempre.
Un’edicola. Compro due biglietti per le linee autobus. A/R.
Gente. Ovunque.
Cammino a testa bassa e stringo il cappotto in petto non appena arrivo fuori per strada.
Questa è la porzione di Firenze che si vede uscendo a sinistra della stazione: un McDonald, uno spiazzo con venditori ambulanti, fermate di autobus, taxi, negozi fatiscenti. Ho un senso di sporcizia.
Faccio qualche metro e mi unisco anche io ad un drappello di persone in fondo ad una strada che sembra non avere uscita.
E’ lì la fermata del 14, che si suddivide in 14A, 14B e 14C. Una di queste finisce a “Il Girone”. Molte passano dal Careggi e comunque l’intera linea non va mai ad OltrArno.
Attendo silenziosamente.
Due bambini peruviani girano intorno al palo cui è affisso l’orario dei passaggi del mezzo, che mi ricorda passerà puntualmente tra quattro minuti. Arriva un’anziana tipicamente fiorentina, con una eccentrica mantellina viola, una spilla luccicante d’argento sul cuore, guanti neri di pelle opaca, trucco pesante con un rossetto di un colore che non riesco a definire. Scaccia via spazientita i due bimbi peruviani chiassosi, la loro mamma non inarca nemmeno il sopracciglio ma rimane impassibile col suo sorriso inebetito ed umido. Spero non abbia reagito intimamente per il sol fatto di sapere di avere due bimbi rompicoglioni e non per venature razziste che so essere in alcuni fiorentini.
Arriva il 23. Il drappello si scioglie come neve al sole; appena le porte hanno sputato i passeggeri diretti molto probabilmente ai treni od al parcheggio interrato, quelli che aspettano sembrano spermatozoi incazzati e vogliosi di fecondare l’autobus-ovulo.
Rimaniamo in una decina.
C’è l’adolescente incazzata col mondo, con le calze viola, gli scalda-muscoli verdeacqua, i capelli biondo-platino e nero-carbone, la faccia tonda e bianca con il mascara di Dior sugli occhi ed un n numero di piercings.
C’è il bravo ragazzo con l’ipod, la camicia nel jeans, i capelli lavati e pettinati e l’alito profumato, che fra una decina di anni manifesterà perversioni sessuali latenti.
C’è la madre stanca, la moglie puttana, il vecchio incazzato. I soliti attori insomma. C’è anche la rom che chiede soldi, che ti implora, che ti bestemmia e poi chiama col suo cellulare qualche altra rom che chiede soldi, che implora e bestemmia da qualche altra parte di Firenze, di Italia, del mondo.
Arriva il 14C. Chiedo se passa da piazza Alberti. L’autista mi scaccia come fossi peste dicendo che non passa da lì e che devo far scorrere. Scendo dall’autobus dicendogli che è un maleducato. I fiorentini sono maleducati. Sono molto ma molto maleducati: strafottenti, irriverenti, insomma delle teste di cazzo. Gente che si crede, che ha avuto un ruolo e che campa sulle spalle degli altri. Non ci fossero stati nei tempi che furono le persone che hanno fatto grande Firenze, col cazzo che la gente ci passava in una città fatta da queste persone.
Aspetto cinque minuti, per fortuna un altro 14.
Ci salgo e riesco a sedermi. Fortunatamente ci sono molti posti liberi, quindi potrò non preoccuparmi di far spazio ad ottantenni, future mamme, donne, bimbi, reduci di guerra e valigie.
Sono talmente stanco che mi addormento.
Sono seduto in direzione opposta al senso di marcia.
Io mi addormento. Ed il 14 mi porta a casa…..

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aroma

ho preso la caffettiera.
ho preso il barattolo del caffè.
era vuoto.
ho preso una confezione di caffè nuova.
l’ho tagliata.
ho inalato per cinque minuti l’aroma.
ho ficcato le dita dentro al barattolo appena riempito sino all’orlo del macinato nero/marrone.
una sensazione unica.

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più che altro

non mi definirei mai uno scrittore… più che altro uno che parla agli altri di sé in terza persona.
E che sa usare accenti ed apostrofi.

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